La questione dei beni comuni ovviamente è di fondamentale importanza laddove si vogliano sviluppare forme di reale partecipazione.
Oggi tale questione è trattata basandosi su equivoci di fondo che rendono le iniziative ad essa legate totalmente inefficaci rispetto agli obiettivi di sostenibilità e miglioramento della vita sul territorio.
Possiamo prendere un caso significativo per analizzare come oggi la questione dei Beni comuni (gestiti in modalità partecipata) sia trattata: si tratta di un mega-convegno su Beni comuni e Partecipazione – Co-City Torino, iniziativa che dovrebbe essere “è una straordinaria occasione per sostenere nuove forme di partecipazione attiva dei cittadini alla cura e rigenerazione del territorio“ [Appendino] – dal quale emerge che
nel trattare la questione dei beni comuni vi sono due equivoci di fondo sui termini beni comuni e partecipazione
che minano alla base le iniziative in questione.
Il risultato è che nell’approcciare le questioni legate ai beni comuni, benchè si annunci di voler innovare radicalmente le modalità della loro gestione,
in realtà non si parte con una vera convinzione di voler innovare.
Ciò che si è sentito dire nelle conferente di Co-City Torino è che vi sono alcune nuove parole d’ordine, poichè appaiono “nubi all’orizzonte” (la crisi economica della PA), e quindi è necessario “cambiare rotta” abbracciando “politiche” di innovazione.
Non si parte quindi dall’idea di innovare, ma dalla necessità,
per i promotori di tali iniziative, di mantenere in vita se stessi;
ovvero di mantenere in vita il Sistema della Politica dei Partiti.
Ciò appare piuttosto ovvio, considerando che, appunto, le persone che gestiscono tali iniziative sono nella situazione di dover difendere il sistema attuale poiché esso è l’unico modo di dar da mangiare alle proprie famiglie. Ciò perché tali persone appartengono ad una categoria professionale che dipende totalmente – a vita – dal lavoro pagato dalle PA (si tratta di politici a vita, dirigenti Aziende pubbliche,funzionari dellePA, dirigenti di istituzioni scolastiche come l’università, ecc …).
Nell’articolo Vedi in articolo “Perché politica dei partiti e politica partecipata sono incompatibili” si analizza appunto come la Politica dei Partiti sia l’opposto della Partecipazione (Politica dei Cittadini).
Si pretende di innovare un contesto – fare un salto di qualità – proprio basandosi su metodi e strumenti del contesto (quelli che stanno creando i problemi!).
l’equivoco sul significato di Bene comune
Il problema alla base di tutto è dovuto ad un equivoco sul significato del termine Bene comune.
I beni comuni sono per definizione “ciò “che appartiene a un determinato gruppo di persone, (…) per lo più ben definito anche giuridicamente (…), soprattutto con riferimento al godimento e all’uso di beni, all’esercizio di diritti e doveri: i beni, le proprietà c. “ [Treccani]
che appartiene o si riferisce a tutti o ai più (contr. di privato, proprio, individuale e sim.)” e
In democrazia queste persone a cui appartengono i beni comuni
sono i Cittadini
(essi infatti sono i Sovrani in Democrazia).
Ovvero in Democrazia i beni che non sono di proprietà di un “privato” (persona, azienda, ecc…) sono di proprietà dei i cittadini (come le parti comuni di un condominio). I quali cittadini, con il diritto di proprietà non hanno solo diritti, ma anche doveri (nei confronti degli altri con-proprietari del bene comune).
Governo (e Pubblica amministrazione) sono quindi, appunto, non proprietari dei beni comuni (non possono disporre del bene comune secondo la propria volontà), ma ne sono “amministratori delegati” – designati tramite il sistema della rappresentanza democratica – che amministra, per conto dei cittadini-proprietari il bene comune.
Laddove non ci si attiene a questa concezione, non vi sono reali beni comuni (ossia nel caso in cui Istituzioni governative o PA pensino di poter disporre dei beni comuni secondo la loro volontà).
E in tale concezione non vi può nemmeno essere una reale partecipazione democratica.
(In altre parole basandosi sulla attuale concezione di bene comune non si è in grado di cambiare l’attuale sistema di governance, quello della Politica dei Partiti. Ovvero non si è in grado di uscire alla crisi economica delle PA, e dalla attuale condizione di inefficacia dei servizi pubblici, del Welfare).
la definizione di comodo di bene comune
Nella attuale concezione dei beni comuni, sono inseriti nelle iniziative ad essi legate non i reali beni comuni, ma solo i beni di cui la PA non solo non sa cosa farsene, ma che rappresenta anche un qualcosa di imbarazzante (a causa del loro stato di abbandono).
Il problema è che in tale dimensione chi prende decisioni mira a soddisfare le esigenze della Politica di partiti, e quindi le iniziative legate ai beni comuni finiscono per essere solo una operazione di facciata (demagogica). Sono, di tatto, una giustificazione per accedere a nuovi fondi UE in un momento di crisi nel quale non è più possibile accedere a finanziamenti a livello nazionale.
Accedere a finanziamenti è, appunto, la prassi seguita nella Politica dei Partiti per tenere in vita il Partito e rafforzare la propria posizione di potere distribuendo denaro a persone ed enti che sono in qualche modo vicine al Partito.
(non è una questione di disonestà – non sempre – ma in effetti, se si crede, anche onestamente, nella Politica dei partiti non è possibile fare altrimenti: si percepisce come necessario arrivare a “compromessi” nelle proprie scelte operative – ma tali compromessi in realtà compromettono, alla base, l’efficacia di azioni come quelle di partecipazione).
Il fatto è che la Politica dei Partiti è sostanzialmente in conflitto con la Politica partecipata (Politica dei Cittadini). E quindi accettare compromessi nei quali ci si allontana dai principi della partecipazione significa cominciare a tracciare un percorso dal quale non è più possibile attivare un sistema di reale partecipazione democratica (e di una effettiva gestione partecipata dei Beni comuni).
Ovvero quando non si inizia il proprio percorso di attività politica istituzionale spostando la propria attenzione dalla necessità di creare strumenti e processi di Democrazia partecipata,
si finisce per rafforzare prorpio quella Politica dei Partiti
che – sulla carta – si vuole superare.
[vedi “Governance Advising per un movimento outsider”]
Ovviamente, in un contesto come quello della politica istituzionale italiana, sono necessari compromessi: ma nessun compromesso deve toccare i principi della partecipazione.
i problemi dei Beni comuni nello specifico
Più nello specifico oggi i beni comuni sono intesi come
1) solo una parte del patrimonio comune in cui nella realtà consistono i beni comuni (sono, appunto, solo quelle parti della Città in disuso che la PA demagogicamente “concede” ai cittadini).
2) con vincoli di utilizzo peraltro molto forti: l’utilizzo di tali beni comuni da parte dei cittadini è in realtà subordinato a condizioni estremamente vincolanti, a causa delle quali i cittadini non hanno di fatto alcuna possibilità di partecipare realmente alla gestione dei beni comuni, poiché il loro intervento e subordinato a decisioni prese a monte dai Partiti o da Enti (cooperative, associazioni non profit, ecc …) che appartengono all’area ideologica e politica dei partiti che governano la città.
Questo livello intermedio – l’unico che sia legittimato dalla attuale concezione dei beni comuni a “partecipare” ai processi di gestione di tali beni – è uno dei difetti nel manico dell’attuale sistema di governance. In un reale sistema di partecipazione democratico, se deve esserci un livello intermedio (probabilmente ciò, all’atto pratico, è necessario visto che bisogna comunque fare i conti con una struttura di governance dall’alto che non può essere trasformata in un brevissimo periodo) gli enti che sono su tale livello devono comunque essere co-creati e co-gestiti con i criteri della reale partecipazione dei cittadini (tali enti devono nascere da input dal basso, ed essere formati e gestiti con la compartecipazione dei cittadini).
Gli effetti della attuale concezione dei beni comuni mostrano chiaramente come oggi si stia andando in una direzione opposta a quella dello sviluppo di una reale partecipazione nella gestione dei beni comuni.
La partecipazione nella gestione del bene comune sarebbe infatti finalizzata a:
1) ridurre le spese della PA nella gestione della Città. Ed invece l’approccio attuale alle gestione dei beni comuni rappresenta la ricerca di una opportunità di spesa: una giustificazione per attuare nuove spese non direttamente legate alla soddisfazione di reali bisogni sociali (rappresentano cioè una scusa, cioè, per accedere a finanziamenti EU, gli unici disponibili oggi a causa del venir meno del supporto economico di uno Stato in profonda crisi economica).
2) ottenere una progettazione delle soluzioni dei problemi sociali più efficace di quella attuale perché sviluppata sul campo, in stretta interrelazione con il mondo reale (dei bisogni). Mentre con l’approccio attuale si continua a sviluppare una progettazione delle soluzioni ai problemi sociali a tavolino (dall’alto).
Oggi la prassi è, appunto, non di portare la partecipazione a livello dei cittadini, ma di incaricare (dall’alto) enti intermediari che, quando non perseguono obiettivi già stabiliti dalla Politica dei Partiti, operano comunque in modalità ideologiche, nella quale spesso – per quanto volenterosi ed onesti si possa essere – non si è in grado di cogliere i reali bisogni delle persone (cosa particolarmente vera oggi, in una realtà sociale in continua evoluzione, dove i reali bisogni delle persone non possono essere “studiati sui libri”, ma possono essere colti nella loro interezza solo da chi li vive direttamente, nella quotidianità: ovvero dagli stessi portatori di bisogni. [vedi articolo “Un nuovo approccio per innovazione di PA e per Smart Cities (proposal)”]
Il risultato della attuali iniziative sui beni comuni è quindi opposto a quello dichiarato, poiché nella attuale forma di amministrazione dei “beni comuni”, in barba ai principi della democrazia (ed ai propositi espressi in modo demagogico delle Amministrazioni) paradossalmente:
1) si abbraccia proprio quella “filosofia delle spese” che sta affossando il sistema-città (un circolo vizioso di spese): oggi le spese continuano a servire per distribuire denaro presso enti della stessa area politica (o ideologica). Ovvero le iniziative relative ai beni comuni sono, appunto, una delle nuove scuse per accedere a finanziamenti UE in un momento in cui vengono a mancare altri finanziamenti a causa della crisi economica delle Nazioni.
2) si continuano a sviluppare soluzioni concepite dall’alto che quindi pongono il focus su bisogni che sono molto lontani dai reali bisogni della società (oggi la progettazione è appunto affidata a persone che non sono i veri “esperti” dei problemi da risolvere, poiché questi ultimi sono le persone che i problemi da risolvere li vivono nella quotidianità).
In ultima analisi il problema di base è che
1) le parti della città oggi etichettate come “beni comuni” non sono affatto i beni comuni ai quali i cittadini dovrebbero accedere ad una gestione partecipata (co-ideazione delle soluzioni, amministrazione partecipata, ecc …).
2) non vi è, di fatto, nessuna partecipazione dei cittadini (nonostante le dichiarazioni dei promotori delle iniziative).
un esempio di reali beni comuni: le strade
Per meglio comprendere come la questione dei beni comuni sia basata su un equivoco di base, dobbiamo considerare che, appunto, non esistono, di fatto (dal punto di vista legale) parti della Nazione che siano di proprietà delle Istituzioni governative ed amministrative.
E che quindi parti del territorio oggi gestite in modo esclusivo dalle PA come le strade sono, di fatto, dei beni comuni.
Le strade della città – alle quali non si accenna nemmeno nell’elencazione dei beni pubblici trattati dalle nuove iniziative di cui stiamo parlando – sono, ad esempio, un bene pubblico che, se fosse gestito in modalità partecipata, in alcuni casi fornirebbe un notevolmente milgioramento sotto il punto di vista della sostenibilità della gestione delle stesse, e di aumento della qualità della vita urbana, ecc …
Il Placemaking è ad esempio un tipo di iniziativa con la quale in molte parti del mondo i cittadini – che ottengono dall’Amministrazione i gestione una strada del quartiere, che può essere chiusa al traffico ed attrezzata direttamente dai cittadini per svariate attività – permette di migliorare notevolmente, grazie alle modalità di partecipazione democratica, la qualità della vita della città.
Ma, come illustrato in altri punti (vedi, ad esempio, “Governance Advising per un movimento outsider”), molti sarebbero i vantaggi nella gestione delle strade della città se queste fossero sottoposte a gestione partecipata da parte dei cittadini: tempestività e capillarità degli interventi di manutenzione, sostenibilità degli interventi, ecc …
Verso una reale partecipazione nella gestione di beni comuni
Una corretta gestione dei beni comuni in reale partecipazione da parte dei cittadini non può quindi essere sviluppata con le attuali politiche di pseudo-partecipazione nelle quali si applicano criteri che sono i forte conflitto con i criteri della reale partecipazione.
Oggi si cercano infatti opportunità di spesa, e si creano iniziative gestite dall’alto (o da intermediari coinvolti in interessi ideologici e/o partitici) che non sono quindi per nulla indotte dalla necessità di risolvere problemi reali del territorio.
(che solo i cittadini, vivendoli nella loro quotidianità, conoscono a fondo).
E’ quindi necessario passare all’adozione di criteri che tengano conto dei principi della reale partecipazione, e dell’effettivo significato di Bene comune.
Un esempio significativo di come interventi sviluppati in compartecipazione da parte dei cittadini possano rendere più sostenibili le attività di gestione del territorio locale, e contemporaneamente migliorare la qualità del territorio, è quello del verde pubblico (parchi giardinetti, aiuole, ecc …).
In questo ambito, laddove oggi si spendono molti soldi senza riuscire, tra le altre cose, ad intervenire su problemi largamente diffusi – e molto gravi – come è, ad esempio, il problema della morte di piante durante i periodi di siccità.
Nei sempre più frequenti periodi di siccità si vedono infatti appassire piante dove per la maggior parte del tempo si trovano persone del vicinato seduti sulle panchine (spesso si tratta di pensionati) : prorpio dove, paradossalmente, a pochi metri continua a fluire – in questa situazione “sprecata” – l’acqua da una fontanella.
Il problema è che tali persone (che sono sostanzialmente nel “loro” giardino) non è che non volgiano intervenire: essi proprio non possono far nulla per le piante in agonia perché tali cittadini mancano di strumenti (ad esempio un attacco alla fontanella che permetta ad essi di attaccare una gomma per irrigare); e perché i regolamenti glielo impediscono.
Quasi sicuramente molte persone del vicinato sarebbero ben liete di impedire la morte del verde per siccità, utilizzando l’acqua della fontanella per irrigare il “loro” giardino.
Questo è solo un caso, ma ce ne sono moltissimi di questo tipo, nei quali una reale partecipazione, ovvero una manutenzione diffusa dei beni comuni (in questo caso qualsiasi spazio verde, non solo quella piccolissima percentuale scelta dalle istituzioni) può creare notevoli vantaggi per l’amministrazione e per i cittadini.
Sempre nel caso del verde pubblico, ad esempio, questa partecipazione può essere sviluppata tagliare l’erba (azione che potrebbe essere una occasione di riunione conviviale del vicinato, la domenica), creare attrezzature come quelle dei giochi per bambini e molto altro.
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