Roberto Perotti si è dimesso da commissario alla spending review in coerenza al suo carattere. E’ tignoso ma riservato, misuratissimo nei toni e nei giudizi. Ha solo detto di aver formalizzato la sua decisione sabato a Renzi, perché non si sentiva più utile. Nessuno dal governo gli ha dedicato una parola. Un addio britannico, freddo anzi algido. E’ la freddezza di chi ha toccato con mano l’inconciliabile distanza tra l’approccio che come studioso Perotti ha sostenuto per anni, e per il quale immaginava di essere chiamato a collaborare dal premier, rispetto invece all’impostazione scelta in concreto per la legge di stablità da palazzo Chigi e dal ministro Padoan. Anzi, soprattutto da Renzi, che ha in corso un processo di accentramento degli indirizzi economici a palazzo Chigi spodestandone il MEF, processo che tra poche settimane avrà esito nell’istituzione formale di una vera cabina di regia alla presidenza del Consiglio.
Gli amici l’avevano detto, a Perotti: ma chi te lo fa fare, lo sai come sono fatti i politici, non ti faranno mai applicare davvero quel che scrivi mettendo a nudo i multipli vergognosi con cui sono i pagati rispetto al resto del mondo i politici e i dirigenti pubblici italiani, o gli ambasciatori o le strutture di Camera e Senato e Quirinale. Ma lui aveva accettato comunque. Per servizio civile, diceva.
E’ finita com’è finita. Con lo stesso esito riservato dalla politica negli anni a Carlo Cottarelli, a Enrico Bondi, a Piero Giarda. E’ finita la grande ubriacatura dei tecnici, ha detto ieri il premier Renzi, la politica ha ripreso solidamente le redini del paese. Infatti si vede:
si torna a far salire il deficit rispetto agli obiettivi, e la si presenta come una virtù.
E’ l’eterna cattiva abitudine della politica italiana a esser tornata, e la novità è che Renzi ne va molto fiero.
Diciamo allora che ci sono due modi per tentare di spiegare l’inutile arrabbiatura che si è preso Perotti in questi mesi. Il primo è ricordare le mille difficoltà che si oppongono a tagliare davvero la spesa. Il secondo: capire meglio a cosa davvero pensino Renzi e Padoan, e perché credono sia giusto.
La spesa pubblica italiana, checché dicano i suoi difensori che ne scorporano questa o quella voce per farla apparire in linea con quella degli altri paesi, è dannatamente elevata: nel 2015 è al 50,8% del PIL, rispetto al 47,4% della media Ue, al 43,5% della Germania, al 43,4% della Spagna. Con entrate pubbliche totali pari al 49% del PIL per non far troppo debito aggiuntivo, il fardello della finanza pubblica italiana è piombo nelle ali della crescita.
Sappiamo da decenni grazie a Max Weber e James Buchanan che
la PA non è fatta per tagliarsi le spese ma per farle crescere, perché è da esse che misura il proprio ruolo e potere.
Perciò i burocrati pubblici hanno inventato la tecnica di contabilità che usiamo in Italia, che fa figurare come tagli di spesa riduzioni dell’aumento tendenziale della medesima per l’anno prossimo inferiori al suo aumento reale previsto: così gli statalisti possono urlare contro il rigore, i governi dire che sono rigorosi, ma l’effetto è che la spesa pubblica cresce comunque, e PA e politica sono contenti insieme. Tanto, a pagare è il contribuente-somaro.
Agli studiosi è nota come legge di Wagner: la spesa pubblica tende a crescere sempre, con un tasso tanto superiore quanto più sale il reddito procapite.
Sappiamo inoltre che vale la legge del ciclo elettorale della spesa. Il politico non tocca comparti “sensibili” di spesa quanto più si avvicinano le elezioni. Per questo i poverissimi contenimenti dell’andamento della spesa pubblica tendenziale previsti in legge di stabilità si riducono a 8,7 miliardi nel 2016 (3,6 mld a carico delle Regioni, metà della parte restante sono minor spesa per investimenti, il resto quisquilie), a fronte però di 5,4 miliardi di maggior spesa prevista. Mentre la manovra in quanto tale è in deficit aggiuntivo per un punto di Pil, rispetto a quanto ci eravamo impegnati con l’Europa.
I dossier su cui aveva lavorato Perotti erano numerosi: il disboscamento delle detrazioni e deduzioni fiscali a questa e quella lobby che valgono 180mld di minori entrate annue, le spese dei ministeri, l’accorpamento e l’omologazione dei 12 comparti della pubblica amministrazione, le partecipate pubbliche e le 12 mila piccole Iri del socialismo municipale. Ma per Renzi toccare ciascuna di queste contsituencies avrebbe resto la legge di stabilità un Vietnan. E ha deciso di risparmiarselo, ovviamente.
Oltre a questo, però, che riguarda Renzi e il suo calcolo elettorale, c’è dell’altro. In Padoan vive anche un’impostazione teorica diversa dalle bassezze dei politicastri. Ma, a veder bene, ancor più di sinistra. Dacché è ministro, i DEF inviati a Bruxelles sono un’accanita contestazione di come si calcola l’output gap di un paese, la differenza tra l’andamento del suo PIL e quanto si potrebbe davvero ricavare dal miglior uso dei diversi fattori della produzione. E’ un punto centrale che divide il dibattito mondiale del dopo crisi.
Studiando oltre un centinaio di crisi fiscali e finanziarie sovrapposte nel corso degli ultimi 150 anni, economisti come Carmen Reinhart e Ken Rogoff ne hanno dedotto che in molti casi la via migliore per uscire dalle crisi è affrontarne le cause con correzioni energiche al limite dello shock, abbattendo l’eccesso di debiti pubblici, bancari e privati, spesa e tasse, perché in quel caso la ripartenza è più rapida e solida: vedi il caso in corso dell’Irlanda per fare un esempio, che oggi cresce al 5% annuo senza aver alzato la sua aliquota sulle imprese al 12,5%.
A questa impostazione se ne oppone un’altra, che accusa il rigore di errori micidiali. Può essere vero che impugnando l’accetta si riparte, sostiene, ma così facendo ci si riprende dalla base di un prodotto potenziale molto più basso, cioè si sacrifica lavoro, reddito, consumi e investimenti non destinati facilmente a tornare. E’ la tesi della cosiddetta “stagnazione secolare”, sostenuta da Larry Summers e Paul Krugman. La loro ricetta è: bisogna seguire politiche monetarie ancor più lasche di quelle sinora messe in opera, fregarsene del deficit e del debito pubblico perché ci deve pensare il banchiere centrale a sostenerli e renderli comunque solvibili, bisogna spendere spandere e investire perché solo così si evitano guai peggiori. Perché ormai la piena occupazione è coerente a tassi naturali d’interesse molto più bassi che in passato, ed è con politiche monetarie e di bilancio no convenzionali – cioè lasche e dispendiose – che bisogna combattere stasi dell’innovazione e declino demografico.
Ecco, con Renzi-Padoan la strada imboccata dalla legge di stabilità è quella Summers-Krugman. In realtà si tratta del Keynes della vulgata deficista, che dimentica quel che Keynes aveva scritto prima del 1936 sull’errore di politiche monetarie troppo accomodanti. Non si scelgono dunque i tagli fiscali alle imprese e al lavoro con cui si ripartirebbe prima, ma quelli sulla prima casa che servono alla fiducia cioè al consenso. Non si incentivano contratti di lavoro e investimenti “addizionali”, ma quelli lordi a cominciare dunque da quelli che si sarebbero fatti comunque: ancora una volta perché la fiducia viene anteposta all’arido calcolo di cosa alzi più il PIL davvero nel breve termine. Tanto ci pensa Mario Draghi a salvarci il fondoschiena, pensano i politici che tornano alla virtù del deficit e del torchio monetario.
Con tutto questo, davvero Roberto Perotti non c’entrava nulla. Vedremo come andrà: ma attenti che la crescita mondiale è al ribasso, l’effetto petrolio è quasi svanito, e anche san Mario Draghi può molto, ma i miracoli in eterno di sicuro non riescono neanche a lui.