Stanotte sul mercato azionario cinese è avvenuto puntualmente ciò che il resto del mondo spera. Cioè che le autorità cinesi, per un bel po’ e con tutti i mezzi che l’autocrazia mette a disposizione, NON facciano più funzionare il mercato. Ordine del partito: il mercato può solo risalire. E infatti dopo il terrore di due notti fa, Shanghai a chiuso con un +5,8%. La cosa più pazzesca è che sono ormai stranote le ragioni della maxi-bolla cinese. Credere di risolverla sospendendo il mercato è un errore. E che l’Occidente applauda, dà una perfetta idea dei tempi che viviamo.
Premessa: cosa è successo due notti fa. Tutti a lambiccarsi per il debito greco da 320 miliardi di euro, ed ecco che nella nostra notte tra martedì e mercoledì alla borsa di Shanghai finiscono sospesi dalla quotazione titoli per la bellezza di 2700 miliardi di dollari. Anzi per oltre 3500 miliardi, se al 51% di titoli di borsa sospesi per eccesso di perdite sommiamo il 38% di azioni riammesse alla sola condizione che salissero. Un allarme rosso al cui confronto il problema greco è un sasso nello stagno, non solo perché parliamo di valori azionari pari a 18 volte il PIl della Grecia. Ma perché la Cina è la Cina, cioè in termini finanziari la maggior detentrice di debito USA e riserve in dollari al mondo. E per questo fu ammessa di corsa nel WTO nel 2001, perché gli USA avevano bisogno per piazzare proprio debito dell’eccesso di rispamio cinese dovuto al suo export travolgente. Il panico ieri si è immediatamente diffuso sulle piazze asiatiche, con Hong Kong che ha perso fino all’8% – peggio del 2008 – prima di chiudere a -5,9%, Tokyo ha perso il 3,1% e lo stesso Taiwan. E sarà caso sarà necessità, il panico poche ore dopo in America è rimbalzato con le contrattazioni sospese al NYSE per “problemi tecnici”, mentre era bloccato il sito del Wall Street Journal e quello della United Airlines.
Chi segue i mercati se lo aspettava: anche se non nelle proporzioni di oltre il 70% del listino cinese bloccato. Dal 14 giugno, la borsa di Shanghai aveva perso il 30%, dopo una fantastica ascesa del 150% in 12 mesi. Ma era bolla, bolla conclamata. Tanto che le autorità cinesi avevano assunto ventre a terra una serie di misure senza precedenti. Rivelatesi però incapaci di sconfiggere il panico. Fino al punto, ieri, di vietare per i prossimi sei mesi a chiunque detenga quote superiori al 5% delle quotate di alleggerire la propria quota, di vietare le vendite ai manager e alle parti correlate delle società, di proibire ogni forma di short selling agli intermediari cinesi, e di consentirlo solo in presenza di sottostanti reali a quelli esteri abilitati ad operare sul mercato cinese. Misure di guerra, misure da 1929. Misure che sono a un passo dalla chiusura dei mercati: perché proibire di vendere significa chiuderlo, il mercato.
Le domande sono tre. Da dove viene, la bolla cinese? Come la affronterà Pechino? Quali conseguenze potrebbe avere?
La prima questione è chiara da tempo. Le ragioni della bolla sono sostanzialmente tre. Man mano che i fondamentali della crescita cinese hanno rallentato, passando da tassi annuali a doppia cifra a un +7% a cui pochi credono, gonfiate come appaiono le statistiche cinesi che non trovano corrispondenza ad esempio nei flussi mensili commerciali, le autorità di Pechino hanno dovuto fare i conti col problema di come soddisfare l’attesa di redditi crescenti di centinaia di milioni di cinesi, ormai lontani dai livelli di pura sussistenza. A questo fine, la banca centrale ha continuato a inondare di liquidità il mercato domestico a tassi stracciati, e il più della liquidità ha preso la via degli investimenti finanziari. Più di quelli immobiliari, a propria volta in bolla già da un paio d’anni. Secondo: ancor più verso la finanza si è indirizzata l’azione dell’amplissimo settore-ombra bancario cinese, non regolamentato e figlio delle vecchie tradizioni di piccoli commercianti che raccoglievano denaro da investire. Si calcola – ma nessuno lo sa – che lo shadow banking valga fino al 25% del credito cinese: naturalmente, tutto al di fuori del controllo di vigilanza, ispettivo, e di minimi coefficienti patrimoniali. Terzo: i broker “informali” hanno ancor più invogliato milioni di cinesi, anche a basso o bassissimo reddito, a investire nel bengodi della borsa attraverso quel che si chiama il marginal lending, cioè anticipando i denari agli investitori, con promessa poi di scalarglielo nel tempo dando loro solo la differenza sui guadagni realizzati. Tanto, guadagnando il 150% in un anno, trattenendo 100 di capitale iniziale non versato e un 25% di commissione al broker, l’investitore indebitato comunque aveva un 25% di ciò che non aveva mai versato… Siamo tra le catene di sant’Antonio e lo schema Ponzi: macchine infernali destinate a esplodere appena il mercato scende tanto da indurre molti a volerne contemporaneamente uscire.
Da metà giugno, le autorità cinesi le hanno provate tutte. La banca centrale ha pompato altra liquidità per miliardi, decine dei maggiori broker controllati dallo Stato hanno lanciato un fondo miliardario per sostenere quelli in difficoltà, è stato consentito agli investitori indebitati di liquidare i margin calls pagando direttamente in case e beni strumentali delle microimprese, in assenza di liquidità. Sono state bloccate le nuove quotazioni e le vendite allo scoperto, si sono ampliati i collaterali per finanziare il trading, si è costituito un fondo per investire in blue chips, cioè nei titoli leader che “fanno” il mercato per peso di capitalizzazione. Ma più questi provvedimenti si sono moltiplicati, più il panico ha preso piede. Sino al botto di ieri notte.
Ora Xiao Gang, il capo della Consob cinese, ha dovuto assumere misure da pre-chiusura dei mercati. Il 12 giugno, solo 48 ore prima dell’avvio del precipizio, aveva tenuto una conferenza ai quadri del partito vantando la borsa cinese come “il toro che continua a trainare la nostra crescita”. Ma il toro ha incornato il torero. Ora il presidente cinese e capo del partito Xi Jingping sarà su tutte le furie. Cento milioni di cinesi sul lastrico – a tanto sono arrivati in 2 anni i piccoli risparmiatori impegnati sul mercato finanziario – sono semplicemente qualcosa che il partito non può permettersi. Ma la soluzione non è facile. Significa ridurre a regole lo shadow-banking, e soprattutto ricapitalizzare almeno le maggiori del 95% delle banche cinesi che sono controllate dallo Stato, e che hanno asset di pessima qualità a cominciare da un vastissimo immobilizzo in mattoni svalutati e crediti deteriorati.
Se questo si possa fare solo stampando moneta virtuale o se servano soldi “veri”, per così dire, farà la differenza per il mondo. Nel caso in cui la Cina fosse costretta a mettere mano, per ricapitalizzare il sistema degli intermediari, ai 2 trilioni abbondanti di riserve in dollari che detiene, allora sarebbero cavoli amari. Perché l’effetto sul cambio yuan-dollaro sarebbe opposto a quello voluto dall’America, perché la Fed dovrebbe alzare i tassi d’interesse per contenere gli effetti sgraditi a fronte della vendita massiccia di propri titoli, e perché a quel punto tutti i mercati ne risentirebbero.
Siamo a questo: anche se non lo ammetterà mai, oggi il mondo avanzato spera esattamente che avvenga quel che è successo stanotte, quando Shanghai, dopo aver aperto di nuovo in caduta libera, ha chiuso la seduta con un +5,8%% salmodiato dall’agenzia ufficiale del governo come riprova – eccome no – che non c’è nulla di cui preoccuparsi. L’Occidente spera cioè che le baionette e l’autoritarismo del regime cinese possano impedire al mercato finanziario di funzionare, tornando a prezzi che abbiano un senso. Perché se funzionasse il mercato cinese e cioè correggese rapidamente i propri eccessi con catene di fallimenti cinesi, gli effetti al mondo arriverebbero eccome. Ormai sembra il mondo a rovescio, quello delle democrazie indebitate: tra di loro non si danno una gran mano predicando virtù, ma sperano che i loro creditori autoritari impediscano armi alla mano ai propri risparmiatori di rientrare dalla sbornia della finanza a debito. Allegria.