Dopo quasi due anni di ripensamenti e modifiche, il Senato ha ieri approvato il ddl anticorruzione, che ora passa alla Camera in seconda lettura. In sintesi estrema, una esigua maggioranza al Senato, talvolta per 3 o 5 voti,ha trovato convergenza su un durissimo inasprimento delle pene. Ma i Cinque Stelle, che hanno votato no, sono per pene ancora più dure. Una vera alternativa liberale alla via della repressione manettara non è esistita, purtroppo, in questo parlamento. Perché a mancare è una cultura diffusa della via alternativa alle retate giudiziarie: quella di poche regole chiare che disboschino le tonnellate di norme nelle cui pieghe si cela il terreno ideale di un politico o dirigente pubblico che le aggira, aprendo porte discrezionali a privati che pagano per aggirare la concorrenza di imprese oneste. Nei dibattiti pubblici a vincere sono coloro che lamentano l’esiguità dei detenuti per corruzione, non coloro che provano a sostenere che uno Stato che intermedia oltre il 50% del Pil, e che vive di norme bizantine, offre per definizione troppe occasioni a chi delinque. L’effetto è una raffica di aggravamenti di pene edittali, e l’ulteriore estensione alla stragrande maggioranza dei reati della facoltà di intercettazione nelle indagini da parte delle Procure.
La corruzione propria arriva a una pena massima 10 anni. La corruzione in atti giudiziari vien punita da un minimo di 6 a 12 anni di reclusione. Il peculato arriva a 10 anni e 6 mesi, l’induzione indebita sale anch’essa, da un minimo di 6 a un massimo di 10 anni e 6 mesi di carcere. Al contempo, salgono tutte le pene per associazione mafiosa: perché la tendenza invalsa è di estendere la definizione di associazione mafiosa anche ad associazioni a delinquere che con la mafia nulla hanno a che fare (vedi l’indagine a Roma).
E cambia radicalmente la disciplina penale del falso in bilancio, abbattendo la riforma del 2002 che prevedeva per le società non quotate la procedibilità di parte per i danni creati a soci e terzi, e prevedeva per tutti soglie quantitative di non punibilità, rispetto a discostamenti contabili non tali da alterare significativamente la rappresentazione societaria. Tutto torna alla procedibilità d’ufficio, con pene fino a 8 anni per le società quotate, e fino a 5 anni per le non quotate, senza alcuna soglia percentuale di non punibilità. Salgono le sanzioni pecuniarie, previste dalla legge 231 sulla responsabilità oggettiva dell’impresa in caso di reati commessi da loro manager e agenti. E per tutte le quotate, a grande richiesta, c’è facoltà di procedere alle intercettazioni, che restano inibite invece per le non quotate (con dure proteste da parte di chi l’avrebbe voluta invece per tutti, a cominciare dal fior fiore delle grandi testate nazionali d’informazione…)
La condotta illecita deve essere «concretamente idonea a trarre in inganno» ed essere realizzata «consapevolmente». E per le società non quotate è prevista la possibilità di applicare la causa di non punibilità per «tenuità del fatto», approvata a marzo dal Consiglio dei ministri. Ma – e qui viene il punto più grave- si tratta di valutazioni che, per come sono stati scritti i testi, saranno a totale discrezione di pm e giudici. Come è a totale discrezione dei magistrati, visto che il testo votato ieri non lo chiarisce minimamente, valutare e decidere in che cosa consista davvero la “falsa esposizione di fatti materiali”, che cosa significhi in concreto che tali materiali debbano essere invece “rilevanti” per poter procedere nei confronti delle società non quotate, e che cosa identifichi invece l’ “omissione di fatti materiali rilevanti” per cui si procede d’ufficio per quotate e non quotate.
La definizione OGGETTIVA DEI REATI è del tutto indefettibilmente assegnata a chi li perseguirà e giudicherà, nella legge non c’è.
Non ci vuole molta fantasia, per comprendere che la norma darà la stura a intercettazioni a strascico di un considerevole numero di amministratori, manager, sindaci e revisori di conti delle società quotate, e inevitabilmente dei loro clienti e fornitori. Perché ricordatevi bene che il falso in bilancio nella legislazione italiana non riguarda solo le poste contabili del conto economico e patrimoniale, ma qualunque documento preliminare o comunicazione a soci e terzi che afferisca alle poste stesse, agli estimi e valutazioni di qualunque asset e negozio economico posto in essere.
Saranno pm nella generalità assai poco esperti di teoria e prassi della contabilità d’impresa, quelli che valuteranno e interpreteranno come ipotesi di reato ogni possibile aspetto della vita societaria. E, per paradosso, a volerlo sono gli stessi partiti e lo stesso parlamento che nel frattempo s’interrogano sui limiti da porre alle intercettazioni, quando naturalmente danno in pasto ai media i politici che magari non solo neanche indagati, come è capitato per Lupi o per D’Alema. Ed è ancora, paradosso nel paradosso, lo stesso parlamento che, nel frattempo, in un contestuale provvedimento, alza a fisarmonica i termini della prescrizione dei reati: e di conseguenza un processo per ipotesi di falso in bilancio da corruzione, con pene cumulate fino a un massimo di 18 anni per una società quotata, potrà durare fino alla bellezza di 21 anni e 6 mesi. Come se la giustizia giusta fosse una sentenza che non arriva mai ma uccide socialmente ogni imputato, invece di una sentenza rapida.
La preghiera che facciamo sin d’ora è che ci vengano risparmiati pensosi editoriali sui limiti da porre alle intercettazioni, quando inevitabilmente arriveranno ai media le trascrizioni dei colloqui telefonici di manager e amministratori di società quotate, magari sui loro gusti sessuali. Perché è tutto implicito e conseguente alla scelta che il parlamento sta facendo oggi.
Nordio, il procuratore aggiunto di Venezia ammonisce pressoché isolato tra i suoi colleghi, sull’errore capitale di credere che pene più dure e intercettazioni a raffica siano il rimedio alla corruzione. Quanto a noi, abbiamo già indicato che la vera via maestra era cambiare dalle fondamenta il codice degli appalti, abolire il direttore dei lavori scelto dal general contractor che non controlla ma è connivente coi corrotti, affidare i lavori solo su progetti esecutivi con limiti più bassi di variazioni in corso d’opera, tagliare da 35mila a poche decine le stazioni pubbliche appaltanti. Certamente, la via liberale anticorruzione non è fatta per soddisfare le ondate emotive che invocano la galera, e incide nella carne viva di uno Stato che è esso stesso, per le sue follie regolatorie, un invito a delinquere. Abbiamo dunque perso una grande battaglia culturale. Ma non ha vinto la giustizia: che vive d’incentivi a far bene, non di terrore del Grande Inquisitore.