La Magna Carta, 800 anni di libertà contro ogni statalismo | L’intraprendente
9 years ago
Siamo così assuefatti al laudano dello statalismo che a qualsiasi istituzione politica della storia diamo invariabilmente sempre il nome di “Stato”. Nemmeno ci sfiora l’idea che una volta lo Stato non c’era. Ricordare dunque che esattamente 800 anni fa, una vera “eternità”, il 15 giugno 1215, a Runnymede, in Inghilterra, veniva siglata la “Magna Carta” equivale un po’ a domandarsi manzonianamente che diamine fosse Carneade. La “Magna Carta”, infatti, è l’arkengemma di un tesoro inestimabile di cui abbiamo però smarrito il senso.
Sul trono inglese sedeva re Giovanni Plantageneto detto Senzaterra (1166-1216). Era un sovrano dispotico e poco simpatico. Il nomignolo se lo guadagnò avendo perduto tutti i possedimenti francesi della famiglia e quindi della Corona. Deciso a rientrarne in possesso, pensò di muovere guerra al re di Francia e di finanziare l’impresa con una nuova morsa fiscale. Iniziò così un serrato braccio di ferro che si concluse solo il giorno in cui, appunto 800 anni fa oggi, re Giovanni capitolò firmando la Magna Charta Libertatum, apice e inizio di una civiltà sontuosa, quella occidentale. Vediamo perché.
La “Magna Carta” (come da allora è chiamata)
sancisce l’inviolabile principio che nessuno uomo è fuori dalla legge, ovvero né al di sopra né al di sotto di essa. Tanto meno il potere. Men che meno i governanti, oltre che i governati.
Il sovrano, cioè, è il primus inter pares cui spetta il governo della res publica ma proprio per questo lui non meno che i sudditi alla legge è tenuto a obbedire in maniera (proprio per il suo rango) esemplare. Non esiste dunque un potere che si erige al di sopra del diritto; non vi è un’autorità sconfinata; non vi è potestà illimitata.
La “Magna Carta” sancisce che il diritto positivo (quello formulato dal legislatore umano) è la cornice dell’agire pubblico di tutti i cittadini, senza distinzione di rango, pur nella distinzione del loro rango (l’egualitarismo è un’utopia: la funzione di un re non è mai pari a quella di un mugnaio). In questo modo,
la “Magna Carta” sbarra la strada a ogni assolutismo poiché impedisce al potere di concepirsi svincolato (ab solutus) dai proprio doveri, totalitariamente privo di lealtà e di confini:
come ricorda la “Magna Carta”, sopra di sé il potere risponde a Dio, sotto di sé esso risponde ai governati.
La “Magna Carta” postula dunque a monte del diritto positivo un diritto naturale che sconfina nel diritto divino, ponendo l’etica del bene e del male oggettivi a parametro dell’azione politica. La “Magna Carta” favorisce e difende la libertà politica poiché articola la società in modo gerarchico (cioè ordinato) ma non tirannico, impedendo ad alcuni di ergersi al di sopra di altri. La “Magna Carta” esalta la rappresentanza politica istituendo un virtuoso sistema di pesi e di contrappesi mediante il quale maggioranze e interessi (leciti) contrapposti si controllano “naturalmente” a vicenda, concorrendo al bene comune.
Ebbene, apice e inizio di una civiltà la “Magna Carta” lo è anzitutto perché frutto maturo della civiltà cristiana del Medioevo feudale, quindi perché pietra miliare del costituzionalismo dell’evo moderno. Senza l’idea forte della giuntura nevralgica tra diritto positivo e diritto naturale, tipica della coscienza cristiana medioevale, quel documento non sarebbe mai stato redatto. E senza di esso il Paese più importante e potente del mondo, gli Stati Uniti d’America, non sarebbe mai nato. Lo spirito con cui, nel 1776, le ex colonie britanniche dell’America Settentrionale dichiararono l’indipendenza dalla Gran Bretagna sta infatti tutto nella “Magna Carta”, che a buon diritto può dunque essere considerata il precedente e l’ancora del Founding statunitense. Alla vigilia dell’indipendenza, le pressanti richieste rivolte dai patrioti americani alla Corona britannica furono nella sostanza identiche a quelle formulate dai baroni feudali a re Giovanni Senzaterra: libertà, rappresentanza politica, controllo della spesa pubblica pagata con le tasse. Il Parlamento come luogo nobile dell’arte politica, non le sue caricature odierne, nasce lì.
Il più grande monumento alla “Magna Carta” sono insomma gli Stati Uniti, che in questo si dimostrano essere un Paese più “medioevale” di quanto mediamente sospettiamo, nonché un vero e proprio distillato del bene politico che l’Occidente ha saputo nei secoli costruire.
Perché la “Magna Carta” mostra che la rappresentanza politica popolare può essere salubremente garantita anche in un contesto aristocratico (allora erano i baroni feudali a farsi carico delle istanze del popolo) e persino in un regime monarchico, il quale (aristotelicamente) può essere non meno democratico (la democrazia è una condizione dell’esercizio del potere, non un regime politico) di una repubblica. Mostra inoltre che la deriva assolutistico-totalitaria dello statalismo moderno è un fenomeno di decadenza e non di sviluppo, ricordando tra l’altro che è possibile sconfiggerla. E infine ammonisce a guardarsi dal potere per “diritto divino”, [o per diritto ideologico, o “antropologico” ndr] monarchico o repubblicano che sia, giacché anche la sanzione sacrale dell’autorità legittima in una società dove la dimensione religiosa ancora qualcosa conta né può né deve mai prescindere dal consenso libero dei governanti, datori di lavoro (con le tasse) dei funzionari pubblici.
Tutte le volte che la lezione di Runnymede è stata dimenticata l’Occidente ha conosciuto le città-stato del violento perfettismo protestante o lo Stato giacobino genocida sin dal principio, i dirigismi liberticidi ottocenteschi o i soviet, lo Stato etico del fascismo o il Terzo Reich, la Cina cannibale di Mao Zedong o la Cambogia mistico-stragista di Pol Pot, ma anche le eurocrazie e le Italiette dei governi grassatori eletti da nessuno. Sarà per questo che il nemico principale di re Giovani Senzaterra fu il mitico Robin Hood che ai tartassati restituiva il maltolto?
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