Carlo De Benedetti | Vermi Rossi
9 years ago
Padrone di Repubblica ed Espresso e tessera numero 1 del Partito Democratico. Aveva comprato Olivetti con i soldi ricevuti dagli Agnelli per togliere il disturbo in Fiat,
e coi soldoni raggranellati nella rapida uscita, appena in tempo, dall’Ambrosiano (Calvi, poveretto, ci guadagnò meno). La pagò poco, perchè a quel tempo Olivetti faceva macchine da scrivere, e già albeggiavano i personal computer ed internet. Per fortuna, con l’interessamento
dell’amico Visentini, le Poste di Stato comprarono ad Olivetti centinaia di migliaia di telescriventi, oggetti già allora obsoleti: lo Stato le rottamò anni dopo ancora negli imballi originali.
De Benedetti ci guadagnò 145 miliardi di vecchie lire. Questo e’ solo il primo passo della sua lunga carriera di arraffatore spregiudicato. De Benedetti non ha mai avuto bisogno di entrare in politica: i politici hanno sempre lavorato per lui.
Classe 1934, è abbastanza dentro alla buona società da essere compagno di studi di Umberto Agnelli. Ma il padre non è mai andato oltre i tubi: la Compagnia Italiana Tubi Metallici Flessibili, fondata da Rodolfo De Benedetti nel novembre 1921 con capitali in parte tedeschi (Società Witzenmann di Pforzheim). Laureato in ingegneria elettrotecnica nel 1958 al Politecnico di Torino, Carlo comincia a lavorare nell’impresa di famiglia. E non è che nel 1972 che assieme al fratello Franco [DS], futuro senatore, acquisisce la Gilardini: una società quotata in Borsa che fino ad allora si era occupata di affari immobiliari e che i due fratelli trasformeranno in una holding di successo, impiegata soprattutto nell’industria metalmeccanica. Presidente e amministratore delegato della Gilardini, nel 1974 Carlo è nominato presidente dell’Unione Industriali di Torino.
E nel 1976, grazie all’appoggio del vecchio compagno di scuola Umberto Agnelli, ottiene la carica di amministratore delegato della Fiat. Come “dote” porta con sé il 60% del capitale della Gilardini, che cede alla società degli Agnelli, in cambio di una quota azionaria della stessa Fiat (il 5%). De Benedetti cerca di svecchiare la dirigenza della società torinese, nominando manager a lui fedeli, a cominciare dal fratello Franco, alla guida di importanti unità operative del Gruppo. Ma dopo appena quattro mesi deve abbandonare la carica. Motivazione ufficiale: “divergenze strategiche”. Ma quel che c’è sotto davvero non si sa. Alcuni parlano di una semplice incompatibilità con Romiti. Altri che la parte di dirigenza Fiat più legata alla famiglia Agnelli avrebbe scoperto un tentativo dei De Benedetti di scalare la società, appoggiati da gruppi finanziari elvetici. Forse non è vero. Ma corrisponde comunque alla leggenda nera su De Benedetti, inquieto protagonista di arrischiate scalate che vanno sempre a finire male. Anche se lui ha l’abilità di uscirne fuori sempre con le tasche piene.
D’altra parte, è proprio con il denaro ottenuto dalla cessione delle sue azioni Fiat De Benedetti può rilevare le Compagnie industriali riunite (Cir), garantendo loro il controllo azionario del quotidiano Repubblica e del settimanale L’espresso. E qui inizia invece la leggenda opposta: quella “bianca” del De Benedetti miliardario illuminato e generoso finanziatore della stampa progressista. Esemplare in proposito è il ritratto che ne dà Eugenio Scalfari nel 1986 in La sera andavamo a Via Veneto (Mondadori): “è stato il solo, tra gli industriali di nome, ad aver osato sfidare la ‘monarchia’ Agnelli.
È il solo del suo ambiente ad avere un rapporto col partito comunista.
È ancora il solo che ha mantenuto una polemica autonomia rispetto ai gruppi politici dominanti”.
Spiega ancora Scalfari: “in Italia ci sono stati molti finanzieri e imprenditori ‘avventurosi’, protagonisti di grandi romanzi politico-economici, ma si è sempre trattato di outsider rifiutati dal sistema. L’unicità di De Benedetti consiste proprio in questo: non è fuori dal sistema anzi vi è profondamente inserito; e pur tuttavia è anomalo rispetto ad esso. Non rifiuta le regole del gioco, ma le interpreta in modo radicalmente difforme dagli altri. Diciamo che la sua interpretazione è più vicina ai modelli liberistici che a quelli dell’oligopolio. Infatti, gioca da ‘cavalier solo’. Sotto le apparenze d’un uomo d’affari assai arrischiato la realtà è invece quella d’un calcolatore assai prudente. Non si conosce che abbia mai bluffato nel corso delle sue complesse partite; né che sia andato alla ricerca del ‘colpo grosso’ mettendo sul tavolo tutta la posta. Proprio a causa di questa cautela, accompagnata da una capacità di lavoro eccezionale e da un intuito per gli affari molto superiore alla media, si è da tempo formato in Borsa un ‘partito De Benedetti’: quando si muove in una direzione, il mercato lo segue senza esitazioni; il suo nome funzione ormai come una garanzia, attorno alle sue iniziative si aggregano in breve tempo capitali cospicui formati da una miriade di anonimi risparmiatori medio-piccoli. Così De Benedetti ha costruito il suo credito, questo è il suo leverage, il suo potere di mobilitare capitali e guidarli”.
Dopo la Cir vede la luce anche Sogefi: operante sulla scena mondiale nei componenti per autoveicoli, ne sarà presidente per venticinque anni consecutivi, prima di cedere il posto al figlio Rodolfo, conservando però la carica di presidente onorario. E nel 1978 entra in Olivetti: un’altra impresa dalla fama di progressismo, anche per la fede socialista del fondatore Camillo Olivetti e per gli arditi esperimenti di ingegneria sociale che il figlio Adriano fece a favore dei suoi operai. Ma Davide Cadeddu, in una breve biografia presentata nel volume a quattro mani con Giulio Sapelli Adriano Olivetti lo Spirito nell’impresa (Il Margine, 2007), ha sparato a zero su quanto “successe anche nella stessa Olivetti quando vi giunse Carlo De Benedetti e nulla di quei valori lasciò nell’azienda, ma tutto di essi disseminò fuori di sé, come per una sorta di hegeliana astuzia della ragione”. In particolare Cadeddu ricorda “l’arrivo di Carlo De Benedetti e la sua presa di possesso degli uffici: un esempio di mancanza di stile che rimarrà memorabile nelle storie del saper vivere internazionale, con l’ondata di terrore aziendale che ne seguì e con il contagio di opportunismo che determinò, dissipando repentinamente il patrimonio di lealtà organizzativa costruito in decenni e trasformandolo in vuoto di fedeltà zelante di ossequio. E ciò avvenne con una rapidità impressionante dopo il licenziamento di decine di dirigenti, a confortare l’ipotesi –già espressa tra gli altri da Ottorino Beltrami nella sua testimonianza – che molto rapidamente, cioè immediatamente dopo la morte di Adriano nel 1960, con il sopraggiungere del gruppo di controllo diretto da Bruno Visentini, di quei valori in azienda s’iniziò la svendita. Sotto questo profilo, l’avvento di Carlo De Benedetti non fu altro che il definitivo suggello di un processo di dilapidazione avviato già da tempo”. Ed ecco qui altri due risvolti della leggenda nera di De Benedetti. Primo: il padrone delle ferriere nel senso più deteriore del termine che si dipinge come progressista e finanzia la sinistra per ripulirsi l’immagine. Secondo: il comodo bersaglio polemico che chi non è a sinistra può ritorcere contro i partiti dei moralizzatori, della serie: “ma perché non guardate alle travi negli occhi vostri?”.
È però pure vero che quando nel 1978 ne diventa presidente la Olivetti è un’azienda dal nome sì glorioso, ma molto indebitata e dal futuro incerto. De Benedetti pone le basi per un nuovo periodo di sviluppo, basato sulla produzione di personal computer e sull’ampliamento ulteriore dei prodotti, che vede aggiungersi stampanti, telefax, fotocopiatrici e registratori di cassa. Soprattutto quello dei registratori di cassa sarà un affare d’oro, quando nel 1985 Bruno Visentini, ministro delle Finanze del governo Craxi, obbliga per legge tutti i commercianti al dettaglio al loro utilizzo con emissione dello scontrino fiscale. Indubbiamente, era una misura indispensabile per combattere l’evasione. Il fatto che lo stesso Visentini fosse stato presidente della Olivetti diede però luogo a fiere polemiche, anche se oggi di quel conflitto di interessi e di quel favore del governo Craxi a De Benedetti si è persa memoria quasi del tutto.
Nel 1984 la Olivetti aveva comunque inglobato l’inglese Acorn Computers. E nell’aprile del 1985 Romano Prodi presenta a sorpresa De Benedetti come azionista di maggioranza della Sme: il fiore all’occhiello dell’industria agro alimentare italiana, definita dallo stesso Prodi “Perla del gruppo Iri”, e che spazia da Motta e Alemagna a Bertolli, supermercati Gs e Autogrill. La bontà dell’operazione è stata curiosamente difesa dai giustizialisti Gomez e Travaglio nel loro libro Le Mille Balle Blu (Rizzoli, 2006): “Berlusconi s’interessò della Sme nel 1985 su richiesta di Craxi che voleva ostacolare l’acquisto dell’azienda da parte della Buitoni del suo nemico Carlo De Benedetti. L’azienda pubblica fu valutata dagli alleati del Cavaliere, Barilla e Ferrero, rispettivamente 10 e 30 miliardi di meno della cifra pattuita da Iri e Buitoni sulla base di due perizie indipendenti commissionate a due esperti della Bocconi. E Berlusconi, quando rilanciò, offrì prima 550 miliardi (appena il 10% in più di De Benedetti, il minimo rilancio possibile) e poi 600. Se davvero, già all’epoca, valutava la Sme 2500 miliardi, non resta che concludere che anche lui voleva rapinare lo Stato. Altro che medaglia d’oro. Il fatto poi che 10 anni dopo la Sme sia stata venduta per 2000 miliardi dipende da altri fattori: l’inflazione; il boom del settore alimentare; il fatto che la società fu ceduta a pezzi e nel frattempo era stata risanata dall’Iri (mentre nel 1985 era un carrozzone fortemente indebitato); e soprattutto il fatto che ne fu ceduto il 100%, mentre nell’85 la Buitoni offrì 500 miliardi per rilevarne soltanto il 64,3%. Prodi non svendette nulla, e infatti fu prosciolto all’epoca dal Tribunale di Roma che indagava sull’affare”. Un altro, più corrente punto di vista è invece quello espresso dalla Wikipedia in italiano: “La vendita è incomprensibile sia da un punto di vista economico che da un punto di vista procedurale. In sordina era stato venduto il 64% della Sme per 497 miliardi (pagabili a rate). La società aveva una cassa attiva per 80 miliardi di lire (40 milioni di Euro) e utili (nel 1985) per 60. Inoltre al pacchetto di maggioranza della società non veniva applicato il premio di maggioranza per il controllo della stessa. Se consideriamo che la Sme aveva una capitalizzazione di 1.300 miliardi è facilmente comprensibile come il controllo azionario della società passava di mano per una cifra notevolmente inferiore a quanto fissato dal valore di mercato”.
Comunque, è questa l’epoca in cui alla rivalità con Agnelli si aggiunge quella con Berlusconi, trascinato da Craxi in reazione alla linea anti-Psi dei giornali editi da De Benedetti. E che poi non deriva in realtà probabilmente da interessi particolari dello stesso De Benedetti, ma all’ideologia di quel partito dei moralizzatori di cui Scalfari è un leader. Intanto, le toccate e fughe continuano. All’inizio degli anni ottanta De Benedetti è già entrato nell’azionariato del Banco Ambrosiano, guidato allora dall’enigmatico presidente Roberto Calvi. Con l’acquisto del 2% del capitale, De Benedetti ha ricevuto la carica di vicepresidente del Banco: funzione puramente onoraria ed a cui non era collegata alcuna attività di gestione effettiva(nella sede milanese dell’Ambrosiano, in Via Clerici, non gli era stato assegnato neppure un ufficio). Dopo appena due mesi, lascia il Banco cedendo la sua quota azionaria. Ma comunque è riuscito a incrociare anche la torbida vicenda del banchiere poi trovato impiccato al Ponte dei Frati Neri di Londra.
Sempre a metà degli anni ’80 De Benedetti tenta l’opa sulla Société Générale du Belgique dei Lippens, mossa che lo proietta definitivamente all’attenzione dei mass-media, tra i figli degli emigranti italiani già ultima ruota del carro in Belgio che dicono di voler fare collette per aiutare la rivincita di quel loro connazionale, e le battute di un Beppe Grillo ancora non trasfigurato in profeta dell’antipolitica: “ma guarda un po’, quello esce di casa e si compra il Belgio. Ve l’immaginate? ‘Ciao cara, esco un attimo di casa che vado a comprare il Belgio’. “Bravo. Già che ci sei, mi passi anche dal fornaio e mi prendi un chilo di sfilatini?”. Ma Gianni Agnelli gli si mette invece di traverso, così come gli ha fatto Berlusconi con Sme. Lo aiutano Banque Lazard e Etienne D’Avignon, che poi diventerà consigliere d’amministrazione della Fiat. Scrive Marco Ferrante in Casa Agnelli (Mondadori, 2007): “Non avrebbe sopportato che De Benedetti vincesse in Europa. ‘Alla fine mi disse: sono contento che lei non ce l’abbia fatta, veramente usò un’espressione molto più colorita, e io gli dissi: avvocato, la ringrazio per il contributo”.
Segue l’altro grande scontro tra Berlusconi e De Benedetti del 1988-90, quando i due si danno battaglia per la Mondadori. In L’Italia di Berlusconi (Rizzoli, 1995) Montanelli e Cervi descrivono il grande duello tra “due uomini antitetici per i casi della vita ma anche per formazione, per indole, per comportamento. L’ingegner De Benedetti era tanto riservato e freddo quanto Berlusconi era estroverso e intemperante: un finanziere, appassionato di manovre borsistiche, giocatore tenace ma non sempre vincente sulla immensa scacchiera delle transazioni internazionali, stratega controverso delle guerre per accaparrarsi maggioranze e minoranze. Queste guerre sono combattute di solito da coalizioni, le armate di cui ogni alleato dispone si chiamano pacchetti di azioni”.
Il Pci e il partito dei moralizzatori di Scalfari tifano per De Benedetti, nel timore che la vittoria di Berlusconi porti sotto il controllo di Craxi le tre testate che sono la loro tradizionale artiglieria: il quotidiano Repubblica e i settimanali L’Espresso e Panorama. I moderati della Dc e Craxi cercano invece di sostenere Craxi. Alla fine, la soluzione salomonica la trova Giuseppe Ciarrapico: re delle acque minerali, e mediatore con un curioso pedigree addirittura di destra neo-fascista. De Benedetti dunque conserva il gruppo Repubblica-Espresso; Berlusconi resta con la Mondadori, Panorama e Epoca (che ben presto peraltro dovrà chiudere). Un pari e patta che però fa cambiare di campo una testata storica del partito moralista come Panorama, e lancia definitivamente a sinistra l’allarme sul Cav. Infatti, a Tangentopoli iniziata De Benedetti cerca di accreditarsi come l’imprenditore “pulito” e “favorevole al nuovo”, tant’è che quando nel 1993 Berlusconi annuncia clamorosamente che al ballottaggio per il sindaco di Roma voterebbe Gianfranco Fini lui subito fa sapere che invece sceglierebbe Francesco Rutelli. Il che non gli impedisce peraltro di finire per un po’ in carcere, per effetto di Tangentopoli.
Nel 1997, sempre Prodi…, al governo, svende le azioni Telecom Italia al solito prezzo irrisorio (tanto che subito dopo il loro valore di mercato aumenta di 6 volte) incassando 22.800 miliardi di lire (la Telecom ne valeva enormemente di più). Con questo stesso denaro, poi, il governo di centro-sinistra riacquisterà Infostrada con la scusa che le infrastrutture delle telcomunicazioni devono appartenere allo Stato. Praticamente lo Stato ha dato via un gigante come Telecom, allo stesso prezzo, di un’azienda nana come Infostrada. Bello scambio!
Il presidente di Telecom era (ed è attualmente) Guido Rossi, l’avvocato di De Benedetti (un pò il suo Previti).
Nel frattempo al governo arriva D’Alema, siamo nel 1999, e Roberto Colaninno, attraverso l’Olivetti di De Benedetti, dà la scalata a Telecom. Ancora una volta ci furono losche irregolarità per tenere il prezzo basso, ma la Consob (l’autorità che deve sorvegliare questi reati) era presieduta da Spaventa, amico di De Benedetti, per cui chiuse entrambi gli occhi sull’affare.
Colaninno, tramite una serie di società fantasma con sede alle isole Cayman (noto paradiso fiscale) arriva a controllare Telecom con appena lo 0,3% delle azioni. Il Financial Times definì la scalata “una rapina in pieno giorno”.
Dalla Telecom fu svenduta la Seat-Pagine Gialle (che ne faceva parte) a una società chiamata “Otto” (del figlio di Armando Cossutta, quello dei Comunisti Italiani, che si vanta sempre di campare come un italiano medio) per 1955 miliardi e rivenduta, insieme a Colaninno, a 16.000 miliardi (8 volte tanto, a quanto pare si divertono a sfotterci: ecco perchè l’avevano chiamata Otto!).
Le società che avrebbero dovuto pagarci le tasse spariscono nei soliti paradisi fiscali alle Cayman.
Nel 2000, come di solito succede nelle migliori rapine quando i complici fanno a botte, Colaninno e De Benedetti litigano per il malloppo, e Colaninno viene massacrato da Repubblica, Espresso e gli altri 30 giornali di De Benedetti. Nel 2001, De Benedetti si allea a Marco Tronchetti Provera, il quale strappa il controllo di Telecom a Colaninno, acquistando la quota di controllo in Olivetti. Ma quando Tronchetti Provera arriva in sella alla Telecom si accorge di essere stato fregato: dalle casse mancano 25.000 miliardi.
Telecom Italia è ormai una società con debiti fino al collo, ormai è stata munta e ri-munta fino all’osso e gli stessi miliardi che comparivano nel bilancio sono in realtà aria fritta: l’unica possibilità si salvarsi è rivendere tutta la baracca allo Stato.
Ad aprile 2006, sale al governo Romano Prodi, il quale fa il solito accordo sottobanco con Tronchetti Provera (e il socio De Benedetti) per il RIACQUISTO della Telecom (come successe per Infostrada), ma stavolta qualcosa non va per il verso giusto.
I due squali alleati, De Benedetti e Tronchetti Provera, iniziano a litigare per chi deve avere la fetta più grossa, per cui, come al solito, Espresso e Repubblica cominciano a infangare Tronchetti Provera per mesi.
Prodi, ovviamente deve scegliere da che parte stare e sceglie il più rassicurante De Benedetti (non vuole fare la fine di tutti quelli che si mettono contro Repubblica ed Espresso!). A quel punto Tronchetti Provera pubblica il progetto segreto di Prodi sul riacquisto della Telecom e scoppia lo scandalo che indigna i giornali di mezzo mondo, anche se ben presto messo a tacere in Italia dai giornali di De Benedetti che fanno scoppiare lo scandalo delle intercettazioni telefoniche contro Tronchetti Provera.
Prodi a quel punto si salva agli occhi dell’opinione pubblica con la solita storiella del “non ne sapevo nulla”, la colpa è tutta del mio collaboratore Rovati (amico di Prodi da una vita, abitano persino nello stesso palazzo), cui seguono prontamente le dimissioni.
La stampa estera arriva a dire: ma che razza di paese è l’Italia? dopo una cosa del genere non solo Prodi non si dimette, ma non si apre neppure un’inchiesta giudiziaria?
Rovati, calmate le acque, ha già ripreso il posto accanto a Prodi.
Nel 1997, il Governo Prodi svende I…nfostrada (dello Stato) a De Benedetti per 700 miliardi di lire, da pagarsi a rate in 14 anni. De Benedetti la rivende immediatamente (dopo aver pagato solo la prima rata) alla tedesca Mannesman a 14.000 miliardi (20 volte il prezzo d’acquisto !). Non basta, lo Stato italiano nel 2001, quando ancora c’era il governo di centrosinistra, RIACQUISTA Infostrada dalla tedesca Mannesman a 21.300 miliardi di lire.
Con la “privatizzazione” di Infostada fatta da Prodi quindi lo Stato ha sborsato 21.300 miliardi di lire, le quali sono finiti 14.000 nelle tasche di De Benedetti e 14.000 nelle casse della Mannesman, in Germania.
De Benedetti e Mannesman avevano un losco accordo: De Benedetti si fa regalare Infostrada da Prodi, la Mannesman se la compra al suo reale valore di mercato e poi se la rivende al doppio (realizzando 14.000 miliardi) allo Stato, complice un governo di Sinistra.
Il manager di Infostrada, Lorenzo Necci, provò ad opporsi a questo immane ladrocinio ai danni dello Stato, ma fu subito incriminato, incarcerato, sputtanato dai giornali della Sinistra (di cui gran parte di proprietà di De Benedetti e persino scritti da lui !) e poi, ovviamente, assolto. Questo è quello che di solito succede a chi mette i bastoni tra le ruote di De Benedetti.
Oggi, grazie anche ai soldi che ha rapinato agli italiani in tanti anni di onorata carriera, il padrone democratico si occupa di energia con la sua ecologica Sorgenia. Dunque, Sorgenia, uno dei principali fornitori di energia in Italia, è parte dell’impero finanziario del nostro. Fin lì poco da dire. Il problema nasce però quando si va a scavare a fondo, nelle pieghe del silenzio che in Italia avvolge l’informazione, e ci fa credere che il nero sia bianco. Come mai infatti Legambiente non protesta MAI contro le centrali della Sorgenia, ovvero Carlo de Benedetti? Perchè è azionista di questa società.
Abbiamo quindi una associazione ambientalista, Legambiente, che fa barricate e protesta e fa nascere comitati OVUNQUE si vogliano costruire centrali, di qualsiasi tipo. … Con una sola eccezione: quando le centrali sono di Sorgenia … Sembra un bel caso di conflitto di interessi.
L’associazione ambientalista pubblica un paper insieme al Kyoto club intitolato “La pericolosità radiologica delle centrali a carbone”, sulla rivista “Scientifica American”. Nel paper si sostiene che le centrali a carbone emettano nell’atmosfera materiale radioattivo in quantità (di radiazioni, non di materiale) circa 100 (CENTO) volte maggiore di quello di una centrale nucleare (?).
Legambiente, che si oppone strenuamente alle centrali a carbone di Genova e La Spezia, ritiene però misteriosamente ecocompatibili le sue a Savona, Vado, Val Bormida, Modugno. Lodi…
Non solo: alla luce del paper scritto DA LORO STESSI (e non si dica quindi che non sapevano) Legambiente starebbe “INTENZIONALMENTE” compartecipando all’inquinamento con materiale RADIOATTIVO l’ambiente che per statuto dovrebbe proteggere…
Il quotidiano “La Repubblica”, il cui proprietario è socio di maggioranza della Sorgenia e quindi socio di Legambiente nell’affare delle centrali, si è scagliato violentemente contro la centrale di Civitavecchia, sia nella sua edizione nazionale sia in quella locale, riportando fra i pareri negativi proprio quello di Legambiente.
Cosa che non si è ripetuta, coincidenza, per le centrali Sorgenia.
Per altre informazioni vedere questo link, dove si scoprirà che la lobby delle energie sostenibili è del tutto insostenibile, ed è ramificata in tutte le iniziative di business del settore con persone tutte dotate di curriculum giusto…
Da dove viene l’avversione di Repubblica per il nucleare poi? Viene dal fatto che CdB non ha nè le competenze nè le risorse finanziarie per costruire centrali di quel tipo. Le quali oltretutto lo taglierebbero fuori, poichè il meccanismo della borsa elettrica dà automaticamente la precedenza alle centrali più economiche rispetto alle altre (l’energia “verde” è esclusa da questo meccanismo, altrimenti non sarebbe MAI venduta). Sorgenia correrebbe quindi il rischio in caso di ritorno al nucleare di vedersi costretta a spegnere qualche centrale a carbone. Di fronte alla possibilità di vedersi chiudere una “fonte della giovinezza” il PD è improvvisamente diventato il più talebano dei partiti pro-fotovoltaico. Fotovoltaico sovvenzionato prelevando i sussidi dalle bollette di tutti, e il principale produttore dell’antieconomico e poco democratico fotovoltaico è sempre lui, la tessera numero uno.
In conclusione, Carlo De Benedetti, con la complicità della sinistra, ha saccheggiato il denaro pubblico dello Stato italiano e ha regalato la ricchezza degli italiani, praticamente tutti i principali enti pubblici, a gruppi privati stranieri, causando danni incalcolabili agli italiani. Ma nonostante queste colpe, controlla l’informazione stampata con più di 30, tra quotidiani, settimanali, giornali e riviste nazionali e locali (Repubblica, Espresso, gruppo Rizzoli RCS tanto per citarne alcuni), oltre ad essere alleato all’intera editoria di Sinistra. Quando andate in edicola o in libreria, sappiate che l’85% di quello che vedete è edito da De Benedetti o dai suoi alleati di una vita. Questo monopolio dell’informazione gli ha permesso (e gli permette tuttora) di distogliere l’attenzione sui suoi loschi affari e di concentrarla tutta sul suo rivale di sempre, Berlusconi. Oggi, Repubblica e l’Espresso sono tra i giornali più letti, e gran parte dell’opinione pubblica italiana è convinta che Berlusconi sia la causa di tutti i mali d’Italia, mentre ignora del tutto o quasi, persino chi sia, Carlo De Benedetti.
In realtà i giornali del tempo parlano di un tentativo di scalata ostile (scippo) alla FIAT.