Quel 64,8 % di tasse sulle imprese è il triste primato della miope Italia | Francesco Bruno – LeoniBlog
9 years ago
“Più grande è la fetta presa dallo Stato, più piccola sarà la torta a disposizione di tutti”.
Citando Margaret Thatcher, è evidente che allo Stato Italiano continui a star bene che la torta si sia ormai ridotta a poco più di un bignè, come conferma l’ultimo rapporto Paying Taxes.
Il Paying Taxes è un report realizzato annualmente e congiuntamente dal colosso del consultino PricewaterhouseCoopers (PwC) e dalla World Bank che analizza principalmente tre indicatori con cui hanno a che fare le imprese di 189 Paesi:
- Total Tax Rate (carico fiscale complessivo sulle imprese),
- Time to comply (le ore impiegate dalle imprese per adempiere i loro obblighi fiscali)
- Tax Payments (il numero di versamenti effettuati ogni anno).
La notizia della pubblicazione del rapporto ha avuto un certo risalto mediatico, visto l’infelice primato raggiunto dopo il sorpasso sui cugini transalpini: l’Italia è il Paese dell’Unione Europea dove le imprese pagano complessivamente più tasse.
I dati italiani
- Per quanto concerne il Total Tax Rate, la performance italiana nel 2014 è stata quella indicata nel titolo (64,8 %). Essa si compone di tre voci: Tasse sui profitti: 19,5 %; Tasse sul lavoro: 43,4 %; Altre tasse: 1,9 %.
Rispetto alla rilevazione dell’anno precedente si individuano leggerissime riduzioni della tasse sui profitti (- 0,4 %) e delle altre tasse (- 0,2 %), mentre restano invariate le tasse sul lavoro.
- Passando alle ore impiegate per adempiere gli obblighi fiscali, il dato complessivo indica 269 ore, anch’esso composto da tre voci: Tasse sui profitti: 39 h; Tasse sul lavoro: 198 h; Altre tasse 32 h.
Il dato è identico alla rilevazione dell’anno precedente.
- Infine, il numero dei versamenti da effettuare: 14, di cui 2 per le tasse sui profitti, 1 per quelle sul lavoro e 11 per la voce Altre tasse.
Un pagamento in meno rispetto l’anno precedente.
Il carico fiscale complessivo sulle imprese scende quindi rispetto l’anno precedente. Il segnale è senz’altro positivo, ma la consistenza è chiaramente debole, soprattutto in ottica comparata con gli altri Paesi membri dell’Unione Europea. Vediamo perché.
I dati europei
La media dell’Unione Europea del Total Tax Rate è del 40,6 % (- 0,6 % rispetto l’anno precedente). Sono ventiquattro punti percentuali, uno spread insostenibile che non occupa però le pagine dei quotidiani.
Anche dal punto di vista del Time to comply siamo nettamente lontani dalla media europea, che si attesta a 173 h (- 96 ore). Idem per il numero dei pagamenti, 11,5 (- 2,5).
Ma andiamo a vedere gli altri Paesi che adottano l’euro, solo per evitare obiezioni sugli asseriti decisivi effetti della moneta. La Francia, che perde il primato a nostro “vantaggio”, è al 62,7 %, la Spagna al 50 %, , la Germania al 48,8 %, il Portogallo e l’Olanda al 41%. Perfino la Grecia “assediata” dalla Troika fa molto meglio di noi, al 49,6 %. Possibile che dobbiamo parametrarci alla media europea solo quando ci sono imposte da alzare?
E con riferimento al Regno Unito, sarà tutto merito della Sterlina se il Total Tax Rate è al 32% (la metà rispetto al nostro Belpaese)? In UK le tasse sui profitti nel 2010 erano al 28%, nel 2015 sono scese al 20%, nel 2020 saranno al 18%. Le ore necessarie agli adempimenti fiscali sono state 110, mentre 8 sono stati i tipi di pagamenti. Differenze disarmanti.
Importante anche l’azione della Spagna, che ha ridotto la tassazione sul reddito d’impresa per le nuove aziende dal 30 al 15 % fino ai 300.000 euro di utili, al 20% per le altre. Anche il Portogallo ha seguito lo stesso trend, riducendo la tassazione sul reddito dal 25 al 17% per i primi 15.000 euro, al 23% per tutte le altre.
Se c’è una cosa che il report dimostra, è che i membri dell’Unione Europea hanno compreso l’importanza di facilitare la vita delle aziende, unica vera soluzione per uscire da una recessione sanguinante. In un’unione economica e, per l’area euro, monetaria, la concorrenza fiscale diventa elemento essenziale per la competitività di un Paese, soprattutto quando non si può più fare affidamento su pratiche svalutative. Non solo il livello di tassazione, anche lo snellimento della burocrazia e la digitalizzazione degli adempimenti gioca un ruolo chiave al fine di permettere alle aziende di competere nel mercato globale ed a dissuaderle dal delocalizzare all’estero.
Solo l’Italia non sembra averlo capito, preferendo spostare il dibattito su euro, complotti, vaneggiamenti su turbo-liberismo teorizzati da pseudofilosofi da talk show che auspicano decrescite felici.
Il Governo ha sicuramente capito il problema, ma troppo spesso manca la volontà politica per osare di più. Ecco infatti che il taglio dell’IRES viene rinviato al 2017, ma lo si era capito sin dal principio che non era una priorità, essendo stato subordinato ad una maggiore flessibilità concessa dall’Europa per l’emergenza migranti. Roba da Art Attack.
C’è sempre un buon motivo per abbassare la pressione fiscale, ma non tutte le stesse tasse hanno i medesimi effetti. Il Report illustra un esempio breve, ma significativo.
Le distorsioni delle tasse sul lavoro
Nel Capitolo 3, gli autori si interrogano sugli effetti nascosti delle tasse sul lavoro. Si parla di wadge, da intendere come differenza tra quanto il lavoratore costa all’azienda e quanto egli riceve effettivamente dall’impresa.
L’esempio è molto semplice. Si immagini un’economia con una tassa sui profitti d’impresa del 30 % e con contributi sociali e previdenziali al 10 %. Ciò significa che ogni euro aggiuntivo di salario del lavoratore, costerà al datore € 1,10, ma il lavoratore riceverà solo 60 centesimi. I restanti 50 centesimi andranno allo Stato, per un wedge di poco superiore al 45 %.
Ovviamente in un simile scenario gli effetti distorsivi sono evidenti. Il datore di lavoro può arrivare a dover spender il doppio rispetto a quanto percepirà il lavoratore, con evidenti effetti in termini occupazionali.
Ma anche i lavoratori sono disincentivati a lavorare di più o anche a cercare un lavoro, a causa di salari molto bassi.
L’impatto di tali distorsioni sulle variabili macroeconomiche sono intuitivi e di certo levano il sorriso. Il Report si focalizza sul caso europeo, dove le tasse sul lavoro incidono pesantemente sulle imprese, ben il 26,5 % dei profitti (contro il 16,2 % della media globale). In alcuni Paesi tale tassazione si aggira intorno al 50 %, come appunto in Italia (43,4 %) e Francia (53,5 %). Se di contro si osserva la Germania su cui le stesse tasse pesano per il 21,2 % o il Regno Unito dove si fermano all’11,2 %, si capiscono molte cose e i dati sulla disoccupazione smettono di stupire.
Il Governo Renzi ha mostrato delle apparenti intenzioni di ridurre questo tremendo gap, come con lo sconto IRAP del 10 % della passata legge di stabilità e, soprattutto, con l’esonero totale dei datori di lavoro del versamento dei contributi previdenziali per i nuovi contratti di lavoro a tempo indeterminato decorrenti dal primo gennaio 2015, con esonero valevole per 36 mesi. Misura importante, ma non strutturale e permanente. Infatti, già dal 2016 lo sgravio fiscale per le nuove assunzioni è “solo” del 40 % e la durata scende a 24 mesi. Se quindi nel 2015 non c’è stato alcun boom occupazionale dettato dagli incentivi (le assunzioni avvenute erano probabilmente già previste a prescindere da essi e sono invece state molte le trasformazioni dei contratti dal tempo determinato all’indeterminato), nel 2016 l’impatto economico dell’incentivo non potrà che essere minore. E poi si dovranno trovare altre risorse per rifinanziare eventualmente la misura nel 2017. I prossimi Report in breve, continueranno ad evidenziare questo spread deleterio.
Milton Friedman non credeva alle tasse sulle imprese: esse non esistono, si tratta di tasse sulle persone, pagate necessariamente dagli imprenditori, dai lavoratori o dai consumatori.
Anche noi dovremmo liberarci da questa idea che le tasse sulle imprese si rivolgano a delle entità astratte lontane da noi, perché è una mistificazione della realtà. Esse incidono pesantemente sulla vita di tutti i cittadini, perché vi è una sostanziale differenza tra chi le paga effettivamente e chi ne sostiene realmente il costo.
Ecco perché quel 64,8% è semplicemente inaccettabile.