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    Sei tesi per dire no al salvataggio bancario odierno – LeoniBlog

    9 years ago

    Il decreto legge odierno di salvataggio di 4 tra le banche commissariate da Bankitalia, salvataggio in fretta e furia prima che entrino in vigore le norme europee sulla risoluzione delle crisi bancarie, mi vede tra i pochi fortissimamente critici. Sono in assoluta minoranza, rispetto al coro di sostegno unanime con cui il provvedimento è stato annunciato. E tra chi critica, meno ancora coloro che lo dicono in pubblico, per non rischiare la berlina. Desidero allora spiegare alcune delle ragioni della mia forte opposizione.

    Ci sono due modi per farlo: il più serio sarebbe una lunga disamina dei coefficienti perduranti di bassa patrimonializzazione del sistema bancario ITA – e in particolare delle banche di cui parliamo ora – quando dal 2008 era chiaro a tutti che il patrimonio obbligatorio e i buffer aggiuntivi di capitale per affrontare i rischi dovevano salire; nonché dell’esplosione dei crediti deteriorati nel sistema italiano (tutto, tranne che una sorpresa, in un paese iperbancocentrico e a forte conduzione del credito secondo logiche relazionali invece che di merito); nonché sull’improvvisa tardiva emersione di molti episodi di malagestio bancaria in tutta Italia, per anni misteriosamente non colti dal radar di decine e decine di ispezioni Bankitalia e poi affiorati quando la vigilanza diventava della BCE. Ma ci vorrebbe un libro: un estesissimo e argomentato libro sulle collusioni – purtroppo – degli azionisti bancari, della politica, e purtroppo anche del regolatore in questi anni. Che non riguardano solo Mps o la Popolare di Vicenza, ma tre quarti d’Italia.

    Il secondo modo è andare dritti al punto, con poche affermazioni motivate ma di fondo, giusto per far riflettere chi ne abbia voglia. Su almeno sei enormi bubbole contate in questi anni, insieme, da sistema bancario e politici (e non smentite con la forza dovuta dal regolatore). Scelgo ora questa seconda strada.

    Primo: il sistema più sano al mondo. Quante volte lo avete letto sui giornali italiani, che c’era un motivo di fondo perché in ITA non c’erano crisi sistemiche bancarie come in Spagna, Paesi Bassi, Regno Unito, Irlanda: e cioè che avevamo i miglior sistema bancario del mondo? Non era affatto vero. Era vero che avevamo meno bolla immobiliare degli spagnoli e degli anglosassoni. Ma sommavamo rischio di credito e rischio sovrano, vista la crescente mole di titoli pubblici in pancia alle banche, e ancor più nel post 2011. E vista la perdita di PIL eravamo comunque condannati a una massiccia esplosione di NPL (oltre 200bn di crediti deteriorati oggi, oltre 340 se li valutiamo in maniera più realistica, sommando quelli che nei bilanci bancari non rientrano ancora nella definizione “ristretta”). In un sistema troppo poco patrimonializzato, con azionisti scarsi di capitale fresco da immettere, gonfio di costi fissi (mattoni e dipendenti) non brutalmente razionalizzabili nella crisi, con un margine d’intermediazione tendente a zero, ROE e ROI negativo. E regole non scritte ma diffuse, di troppo credito agli “amici degli amici”.

    Secondo: le banche italiane non hanno bisogno di aiuti. Questa seconda bubbola è stata raccontata quando sono partiti i piani di salvataggio-ristrutturazione bancaria sotto l’ombrello europeo con fondi anticipati e vigilanza rigorosa comunitaria nel post 2011, come in Spagna. Già allora era evidentissimo che qualcosa di analogo, su scala minore forse ma di analogo, era necessario all’Italia. Ci fu chi riservatamente segnalò e argomentò l’esigenza ai premier Monti e Letta. In entrambi i casi, si decise di soprassedere. Quirinale e Bankitalia, oltre naturalmente all’ABI, non volevano scatenare polemiche di facile presa politica, sul fatto che i governi d’emergenza avrebbero rappresentato in Europa il nostro paese come gravato da un grave problema sistemico. Un errore grave, quello di ver messo polvere sotto il tappeto per evitare la sorveglianza europea: pagato da famiglie e imprese con la gravissima restrizione di credito ancora in corso. Errore la cui gravità è stata confermata quando, entrata in vigore la vigilanza comune Bce sui maggiori istituti nazionali, improvvisamente sono emerse sistematicamente debolezze patrimoniali, con la necessità di aumenti di capitale a raffica tra metà 2013 e 2014 e 2015, senza che per questo evitassimo di risultare con diverse banche a rischio comunque elevato negli stress test BCE.

    Terzo: noi non siamo come i tedeschi, che salvano le loro banche violando le regole. Vero, i tedeschi hanno ottenuto con le ragioni della forza eccezioni serie e travi per le loro scassate Landesbanken politiche, hanno fatto pasticci inenarrabili come con la fusione Commerz-Dresden, hanno continuato a far leve finanziarie suicide come in Deutsche Bank, oggi alla resa dei conti. Ma il motivo per cui l’Italia non ha mai alzato la voce a Bruxelles contro questi salvataggi preferenziali, fuori dal naso e dall’occhio di una sorveglianza europea, è ben diverso da quello raccontato sui media: il motivo è che al momento giusto ci riservavamo di fare la stessa cosa.

    Quarto: il silenzio di un anno sulla bad bank all’italiana. Gli osservatori più scafati delle vicende creditizie italiane sapevano da inizio 2015, che Bankitalia-governo-Abi si muovevano a Bruxelles per far passare nel corso dell’anno una versione italica di aiuti al sistema bancario, per consentirgli di cedere gran parte dei NPL senza però farlo a prezzi troppo bassi cioè di mercato (perché se no, come al solito, sarebbero state necessarie ricapitalizzazioni….). E comunque prima che entrasse in vigore il comune meccanismo previsto dalla direttiva europea varata a seguito della crisi cipriota prima e greca poi, quella che entra in vigore il primo gennaio 2016 e che è conosciuta come bail-in (con il coinvolgimento, nella risoluzione delle crisi, primariamente degli azionisti, poi degli obbligazionisti meno tutelati, fino ai depositanti oltre i 100 mila euro). Ma, per 10 mesi, sui media il silenzio su questo tentativo è stato pressoché assoluto. Ogni tanto usciva qualche dettaglio sul coinvolgimento di CDP o addirittura di Sace. Tutti coloro che hanno fonti a Bruxelles sapevano che alla Commissione Europea si era esterrefatti, di fronte al tentativo italiano di usare aiuti di Stato quando ormai c’era la doppia cornice della vigilanza comune BCE sui maggiori istituti di ogni paese, nonché della direttiva bail-in. Puntualmente, il penoso tentativo italiano è andato a scontrarsi con un no scontato: che il MEF ha ammesso solo la settimana scorsa, con una secca nota che non dava altre spiegazioni sul merito vero delle proposte avanzate. E sui media è partito il coro imbeccato dal sistema bancario, contro “i burocrati dell’Europa che su permettono di obiettare all’Italia che non ha mai chiesto aiuti”.

    Quinto: il silenzio sul monito europeo nella vicenda Tercas. Lo stesso silenzio è stato riservato alle dure obiezioni europee espresse 9 mesi fa all’intervento di salvataggio nella banca teramana operata coinvolgendo il Fondo interbancario dei depositi, con la pretesa che fosse uno strumento “privato”. Quell’intervento non era privato perché orchestrato da Bankitalia, privo di un valido conto dei costi-benefici comparato, tale da giustificarne il ricorso rispetto a un’operazione condotta invece sul mercato e con criteri di mercato, e inoltre il Fondo serve a tutelare i depositanti delle banche, non gli azionisti. Tutti noi che seguiamo le vicende bancarie abbiamo in mano il documento europeo: ma nessuno quasi ne ha scritto, e fino a 2 settimane fa i media italiani continuavano a ripetere che per le 4 banche su cui si interviene oggi si sarebbe adoperato il Fondo interbancario. Invece ora bisogna cambiare retrospettivamente anche il modo in cui si è operato in Tercas. Che pena.

    Sesto: il pasticcio attuale. La collusione ABI-governo-Bankit solo negli ultimi giorni ha dovuto prender atto che l’errore di non aver voluto un intervento sistemico vigilato dalla UE nel 2011-2012 non ha costituito base per vedersi approvata alla fine una scappatoia “nazionale”, all’ultimo secondo utile prima dell’entrata in vigore del bail-in. Ergo l’Italia la settimana scorsa ha recepito di corsa il sistema europeo di risoluzione delle crisi bancarie – che era stato apposta ritardato fino all’ultimo – con un’apposita unità costituita in Bankitalia. Si dirà a questo punto: bene caro Giannino, hai comunque ottenuto quel che vuoi, azionisti e obbligazionisti subordinati sono colpiti nelle 4 banche in cui si interviene. Ma non diciamo fesserie: il punto è che traccheggiando per anni abbiamo alimentato all’inverosimile l’aspettativa di salvataggi per tutti, rendendo sempre più comatosa la situazione di molte banche che si trovavano in condizione-limite, e che non sarebbero giunte a questo se regolatori e politica non avessero alimentato aspettative impossibili. In ogni caso, il salvataggio degli istituti delle Marche, Etruria, Chieti e Ferrara avviene ora con una modalità che rispetta le regole nuove e comuni solo per modo di dire. Primo: gli aiuti di Stato restano, vengono quantificati in 400 milioni nello stesso comunicato immediato rilasciato  della Commissione UE.  E in ogni caso la valutazione dei NPL delle 4 banche è fatta ” a tavolino”, non dal mercato. Poiché poi il finanziamento annuale del fondo – 500 milioni a carico dell’intero sistema bancario – ancora non è disponibile poiché occorreranno mesi per le delibere di ogni istituto, ed ecco che allora sono alcuni grandi banche italiane a metter capitale nelle 4 banche ognuna divisa tra good e bad bank, e poi quando sarà il Fondo subentrerà. Ma avremo impegnato più di 4 annualità del Fondo che serve alla risoluzione di tutte le crisi bancarie italiane: cosa faremo per le altre banche commissariate da Bankitalia? E perché mai – se non per un obbligo “di sistema” ordinato da politica e Bankit – devono metter soldi in banche fallite che non si vuol far fallire chi, come Unicredit, ha dovuto ora ora varare il secondo piano industriale in pochi mesi con tagli e cessioni sanguinosi? Ma dove sta scritto che non deve fallire mai nessuna banca, neanche le banche più piccole ergo senza rischi sistemici nonché peggio amministrate? Perché domani si dirà che l’intervento è a spese zero per i contribuenti, visto che le banche recupereranno 1 dei 3,2 miliardi dell’intervento varato oggi attraverso gravi fiscali cioè appunto a spese dei contribuenti? E che segnale è mai quello odierno, verso le fusioni sinora bloccate da solite questioni territorial-politiche tra grandi popolari investire dalla (buona, per me)  riforma voluta dal governo: non è ovvio che le frenerà ulteriormente? E verso le quasi 400 BCC, che anch’esse avrebbero bisogno di una vera e propria ondata di fusioni e ripatrimonializzazioni?

    Si fa quel che si è deciso oggi per evitare la paura dei depositanti, si dice: l’Italia della ripresa non ne ha bisogno e deve evitarla a tutti i costi.  Siete sicuri che sia così? Oppure è  per evitare che la gente inizi sul serio a farsi i conti e a guardare i bilanci bancari, per capire dove mettere i propri soldi, e di quali azioni e obbligazioni bancarie disfarsi? Chiedetevelo, prima di liquidare le mie sei tesi come “fesserie liberiste”.

    Oggi siamo a un altro capitolo di una lunga storia di errori e omissioni, bubbole e collusioni. Ripeto: il conto lo hanno durissimamente pagato imprese e famiglie. Mi rendo conto, è più facile dar la colpa all’Europa. Ma non sta né in cielo né in terra: la colpa è di un sistema collusvo che non ha saputo e voluto guardare in faccia alla realtà, e non ha preferito famiglie e imprese agli azionisti bancari, e ai loro intrecci troppo stretti con la politica locale e nazionale

    Sei tesi per dire no al salvataggio bancario odierno – LeoniBlog.