Petrolio, tasse e regali: chi finanzia il terrore
9 years ago
All’alba di lunedì 16 novembre, una decina di aerei americani si è alzata in volo dalle basi aeree in Turchia per intraprendere una missione che l’aviazione degli Stati Uniti non aveva mai compiuto prima. Dopo il decollo, gli aerei si sono diretti sopra Deir el-Zour, il principale centro di produzione petrolifera nelle mani dell’Isis. Con bombe e mitragliatrici hanno attaccato la lunghissima colonna di autocisterne in coda davanti agli impianti e, in pochi minuti, hanno distrutto 116 veicoli.
È difficile stabilire con certezza quali e quante siano le entrate dell’Isis, ma quasi tutti gli esperti sono concordi nel dire che la vendita del petrolio siriano è di gran la più sostanziosa. Secondo le stime più diffuse, l’Isis ricava 1,5 milioni di dollari al giorno grazie alla vendita del petrolio.
Quello di lunedì è stato il primo attacco a questa fondamentale fonte di sostentamento per lo Stato Islamico. Attaccare direttamente i pozzi di petrolio siriani, infatti, rischia di innescare un disastro ecologico e di pregiudicare la ripresa economica del paese. Colpire le fasi successive del ciclo produttivo è altrettanto difficile perché non sono gli uomini dell’Isis a occuparsi di raffinare e distribuire il petrolio, ma migliaia di civili siriani che comprano il greggio dallo Stato Islamico, lo raffinano in impianti privati, lo trasportano sui loro automezzi e lo vendono nei loro distributori. Paralizzare l’industria petrolifera siriana senza causare danni a lungo termine rischia di provocare un’ecatombe di civili.
Sono proprio loro, purtroppo, ad acquistare gran parte del petrolio estratto dall’Isis. Quello che resta viene contrabbandato in Turchia e in Iraq, oppure viene acquistato dai nemici dell’Isis, come il regime di Bashar al Assad e i ribelli moderati della FSA, che lo usano per alimentare i loro veicoli e per mantenere in funzione gli ospedali nelle aree sotto il loro controllo. Secondo l’intelligence americana, questa industria dipende da una flotta formata da circa 1.000 autocisterne, un decimo delle quali sono state distrutte negli attacchi di lunedì.
Gli Stati Uniti hanno detto che la decisione di cambiare strategia e di iniziare a colpire l’industria petrolifera siriana, risale a molto tempo fa e che non è una risposta agli attacchi di Parigi. È una scelta, dicono, per colpire quella che ancora oggi è la principale fonte di guadagno dello Stato Islamico.
Al secondo posto invece c’è un tipo di finanziamento che non sarà possibile fermare con qualche attacco aereo: le imposte. Circa sei milioni di persone abitano sotto il controllo dello Stato Islamico, più degli abitanti della Danimarca. A loro l’Isis impone una serie di tasse tratte dalla tradizione dei primi secoli della storia islamica: la kharaj, la tassa sui terreni; l’ushr, un’imposta sui beni importati; la zakat, una forma di carità obbligatoria e infine la jizya, la tassa che sono obbligati a pagare i non musulmani.
Accanto a queste imposte, «legali» dal punto di vista delle scritture islamiche, l’Isis spesso ricorre a rapimenti ed estorsioni per arrotondare i suoi bilanci o per arricchire i suoi comandanti locali. Diversi commercianti di Raqqa e Mosul, ad esempio, hanno raccontato di essere obbligati a pagare una specie di «pizzo» per essere lasciati in pace. I riscatti pagati dai governi occidentali sono un’altra fonte di guadagno importante, anche se incostante: un paio di rapimenti possono fruttare anche decine di milioni di dollari.
Secondo gli esperti, petrolio e tasse hanno reso l’Isis finanziariamente autosufficiente. In altre parole, lo Stato Islamico riesce a mantenere in piedi gran parte della sua struttura sfruttando le risorse che estrae dai territori sotto il suo controllo. Esiste comunque una terza fonte di finanziamento, anche se piuttosto lontana per volume dalle prime due: i trasferimenti di denaro dall’estero. È un flusso che si è inaridito nel corso degli ultimi anni, ma che era consistente quando l’organizzazione era poco più di una delle numerose brigate ribelli che combattevano il regime di Bashar al Assad.
Secondo una stima fatta dal settimanale Newsweek,
tra il 2012 e il 2013, l’Isis ha ricevuto circa 40 milioni di dollari da donatori situati nei ricchi paesi del Golfo
– una cifra pari a quanto oggi l’organizzazione ricava in un mese dalla vendita del petrolio.
Oggi, i governi di Arabia Saudita, Qatar, Kuwait e degli altri paesi del Golfo hanno spostato i loro finanziamenti verso gruppi ribelli che considerano meno pericolosi per la stabilità delle loro dinastie regnanti. Hanno anche iniziato a collaborare con i servizi di intelligence occidentali per bloccare i flussi di finanziamento privati. I loro sforzi, però, non sempre si sono rivelati genuini e ancora oggi esiste una rete di simpatizzanti dell’Isis, estesa dal Marocco all’Indonesia, che raccoglie denaro, a volte in piccole o piccolissime somme, e, seguendo strade tortuose, riesce a farlo arrivare fino in Siria e in Iraq.
L’Isis è sotto attacco di una coalizione internazionale oramai da più di un anno e tutte e tre le sue principali fonti di sostentamento sono state messe sotto pressione. I servizi segreti di mezzo mondo stanno dando la caccia ai suoi finanziatori; curdi, iracheni e ribelli moderati hanno riconquistato vaste aree del suo territorio e i caccia americani hanno iniziato a colpirne l’infrastruttura petrolifera. Eppure sembra ancora vero quello che all’inizio di questa guerra disse il sottosegretario al Tesoro americano: l’Isis «è la più ricca organizzazione terroristica che abbiamo mai incontrato».
Davide Maria De Luca
Petrolio, tasse e regali: chi finanzia il terrore – Esteri – Libero Quotidiano.