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    Quelle etichette sui prodotti sono un marchio anti-Israele

    9 years ago

    L’Ue imporrà diciture che indicano la provenienza dai Territori occupati Un pregiudizio evidente nei confronti dello Stato ebraico sotto attacco

     

    È davvero sconcertante pensare che in questi giorni l’Unione Europea, mentre il Medio Oriente è percorso da ondate continue di barbarie che si infrangono solo contro i confini dell’unico Stato che rispetta i diritti umani dell’area, sia tutta intenta, con lavorio incessante, a preparare le «linee guida» per etichettare, sugli scaffali dei negozi, i prodotti di Israele provenienti dai Territori oltre la Linea Verde.

     

    Le direttive dovrebbero essere applicate dal primo di gennaio, e una lista di norme dirà ai vari stati come applicare la loro «stella gialla», che sarà tale anche se certo avrà un’apparenza diversa, su frutta, verdura, prodotti tecnologici provenienti dalla Giudea e dalla Samaria.

    Perchè l’Ue si sta affrettando verso questo passo? È una specie di sindrome, di ossessione che possiede l’Unione, e che è difficile davvero collegare a un virtuoso disegno di pace. Checché ne abbia detto l’ambasciatore europeo in Israele, Lars Faaborg Andersen, la decisione non è affatto una «questione tecnica» che discende dalla dichiarazione del Parlamento Europeo che considera illegali gli insediamenti, e che quindi spingerà per forza avanti il processo di pace. Chi può veramente credere che, una volta che nei supermarket alcuni prodotti israeliani porterano i marchio d’infamia che l’Ue vuole imporgli, la pace avrà fatto un passo avanti? Si tratta di un passo invece improntato a cinismo, illegalità, ipocrisia e a una persistente antipatia nei confronti dello Stato d’Israele spinto avanti dalle Ong promotrici del Bds, il movimento di «disinvestimento e boicottaggio» che si dedica strategicamente a questo dai tempi della conferenza antisemita dell’Onu a Durban nel 2001 e preme le istituzioni.

    È una strada inventata nel 1948 dagli Stati arabi che stabilirono di boicottare Israele fin dalla sua fondazione.

    Il cinismo europeo colpisce le migliaia di famiglie palestinesi che resteranno senza fonte di guadagno quando le imprese siano costrette a chiudere; e colpisce il cittadino israeliano, e in particolare quello che vive nei «territori», che piange i morti dell’ondata di terrorismo di queste settimane. Proprio mentre continua l’incitamento a uccidere, l’Unione Europea dovrebbe far sentire ai palestinesi che uno Stato si deve meritare, che

    il prezzo dell’indipendenza è la rinuncia al terrorismo.

    Il labeling è l’anticamera di un boicottaggio di Israele non solo nei suoi prodotti, ma nella sua esistenza in assoluto. Invece di spingere avanti il processo di pace lo impedisce,

    facendo credere ai palestinesi che non ci sia bisogno di negoziato sui Territori, ma che essi gli appartengano come appartenevano alla Giordania prima del ’67.

    Invece

    le risoluzioni dell’Onu stesse stabiliscono che un accordo sia da stabilirsi tenendo conto della sicurezza di Israele, e non creando una situazione tipo quella di Gaza, sgomberata gratis per far posto a missili e terroristi in assetto di guerra.

    L’Ue sa benissimo che oggi i palestinesi non offrono a Israele nessun riconoscimento dello Stato Ebraico,

    anzi, lo rifiutano, e allora perché pretendere lo sgombero? Inoltre, se l’Ue avesse davvero una politica che segnala i prodotti delle zone occupate, marchierebbe anche quelli del Sahara Occidentale occupato dal Marocco, e della parte di Cipro invasa dalla Turchia. Ma neanche ci pensa, come non lo fa per decine di altre zone contestate. E se solo Israele è nel mirino, la decisione dell’Ue è una decisione politica, tanto più odiosa dato che tutti ricordano come nella storia, dopo il labeling dei prodotti ebraici, sia venuto il labeling delle persone.

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