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    Bibinomics: la lezione di Netanyahu — di Lukas Dvorak – LeoniBlog

    9 years ago

    Mentre Maria Elena Boschi ha passato i mesi di Maggio e Giugno a dichiarare che “Spagna e Israele stanno studiando la nuova Legge Elettorale italiana per copiarla” (senza indicare da quale fonte questa certezza proviene visto che il Jerusalem Post, in un articolo del 19 Marzo, considerava l’Italia un’anomalia democratica), nel corso di una cena tenutasi poche sere fa, Netanyahu ha dato una lezione di fiscalità a Giuseppe Sala, commissario unico di Expo 2015. Il premier israeliano ha affermato che in Italia si pagano troppe tasse e ha spiegato questa sua affermazione disegnando a penna, sul menu del ristorante nel quale i due sedevano, la curva di Laffer.

    La curva di Laffer è una delle tante funzioni economiche tramite cui le varie scuole cercano di comprovare le proprie teorie; tutte difettano nel fatto che sono precise matematicamente, con dei valori di riferimento assegnati, ma applicati alla realtà i valori sono sconosciuti, con la conseguenza che le previsioni possono rivelarsi sbagliate. Eppure Netanyahu suggerisce la curva di Laffer come l’approccio vincente tramite cui Israele ha migliorato il proprio quadro macroeconomico. Se allora vogliamo lasciare da parte il dibattito accademico e ideologico, si rende necessario conoscere cosa è avvenuto in Israele in questi anni.

    Il tutto ebbe inizio nel 2003, quando Netanyahu era Ministro delle Finanze. Fino al 2002 il PIL israeliano andava in picchiata, la disoccupazione superava il 9%, la bilancia commerciale pendeva platealmente verso l’export. Dipendendo l’economia in maniera eccessiva dalle esportazioni, l’unica soluzione che veniva trovata dallo Stato per andare avanti erano le svalutazioni competitive. Ma la domanda interna continuava a stagnare a causa dell’alta inflazione e del livello dei prezzi sui beni importati. La congiuntura della Seconda Intifada di certo non favoriva il turismo, che stava subendo un crollo, e le spese per la previdenza sociale erano una pericolosa spada di Damocle sulle teste dei cittadini, in uno scenario in cui la pressione fiscale aveva raggiunto livelli insostenibili.

    A partire dal 2003 Netanyahu avviò una massiccia serie di privatizzazioni che coinvolse due fra le principali banche israeliane, Bronfman-Shruhan e Leumi Bank, le Raffinerie di Stato della holding “Bazan” (in particolare per l’impianto di Ashdod è stato venduto il 100% delle azioni possedute dal Governo per una cifra intorno agli 800 milioni di dollari) e la Società cooperativa per la commercializzazione di prodotti agricoli ed alimentari Tnuva, ceduta per un totale di 1.025 miliardi di USD.

    Il mercato finanziario, coerentemente con la privatizzazione dei due gruppi bancari sopra indicati, venne liberalizzato affidando il compito alla Banca Centrale di evitare la formazione di situazioni di monopolio. Un’ulteriore manovra, inapplicabile in Italia, ma sulla quale vale la pena di spendere due righe, fu l’avvio di una piena privatizzazione del sistema pensionistico. Il sistema israeliano si differenzia da quello italiano in quanto la modalità di erogazione della prestazione è a capitalizzazione:

    ogni cittadino possiede un fondo pensione e
    i contributi versati servono la sua pensione futura
    .

    Questo sistema consente di poter avere degli istituti di previdenza privati che offrono, in base alle esigenze dell’individuo, prodotti diversi. In Israele vi sono circa quindici istituti a cui un lavoratore può decidere di destinare i propri contributi, i quali vengono investiti in prodotti a basso rischio consentendo la maturazione del patrimonio tramite un sistema di capitalizzazione composto.

    Il sistema a capitalizzazione è per sua natura possibile solo dove la pensione viene calcolata con metodo contributivo. In Italia il sistema contributivo è troppo giovane per pensare ad un ulteriore cambiamento che porti ad utilizzare la formula a capitalizzazione, ma la libertà di scegliere a chi e in quali modalità affidare i propri risparmi ha sicuramente il suo fascino.

    Da notare che questa spinta verso la privatizzazione integrale del sistema pensionistico nasce anche da una semplice idea di Netanyahu, secondo il quale i privati sono i più capaci, assumendosi un rischio, di gestire le Società, siano esse anche istituti di Previdenza.

    A tal proposito, voglio raccontare un personale aneddoto. Nel 2012 mia moglie dovette richiedere il sostegno al reddito per disoccupati. L’importo dell’assegno mensile che le venne erogato risultò maggiore di quanto effettivamente spettava e prontamente ci recammo negli uffici INPS di Via Ripamonti a Milano per regolarizzare la posizione. Ci fecero compilare dei moduli, e subito dopo ci dissero che avremmo ricevuto risposta in merito alle modalità di versamento di quanto dovevamo restituire. Mai, e sottolineo mai, ci pervenne una comunicazione in merito alla nostra domanda di restituzione. Circa un anno dopo, per una nuova situazione che si venne a creare, mia moglie dovette richiedere nuovamente l’assegno di disoccupazione; ci occupammo di seguire la prassi per la richiesta, la quale andava ormai fatta online, e restammo in attesa. I mesi passavano e considerato il protrarsi dell’attesa e dell’impossibilità di avere soluzioni reali dal call center dell’INPS, andammo nuovamente nei loro uffici. Scoprimmo così che la ragione del ritardo risiedeva in due ragioni (a quanto pare ignote agli impiegati del numero verde): non sapevano come regolarizzare la posizione di mia moglie, in quanto la somma che doveva restituire figurava correttamente come mancante; avevano necessità di un documento smarrito dall’ente stesso – e qui ci sarebbe da aprire un capitolo sulla necessità di accorpare INPS e Ufficio di Collocamento, ma voglio evitare un’ulteriore digressione.

    Riassumendo: l’amministrazione dell’INPS aveva completamente dimenticato il proprio credito e, perdipiù, in diversi mesi non ha saputo comunicare in alcun modo che la pratica di mia moglie non poteva andare avanti a causa di documentazione mancante. Le idee vengono anche forgiate sull’esperienza personale, e a me, la mia, suggerisce di dare ragione a Netanyahu.

    Tornando ad Israele, il Paese è naturalmente ancora legato all’export, ma la riduzione dell’aliquota sulle Società, pari al 25% con un previsto ulteriore abbattimento fino al 18% nel 2016, e dell’imposta sulle persone fisiche, hanno favorito gli investimenti stranieri e l’insediamento dei poli di importanti multinazionali quali Microsoft, IBM, Compaq, HP e Intel, oltre alla nascita di un numero di start-up pari ad una ogni 1.844 cittadini. Ciò ha permesso di regolare la bilancia commerciale, che oggi non è figurativamente diversa da quella tedesca, e far scendere i dati della disoccupazione al 6%. Molte iniziative e assunzioni si sono avute anche in zone del Paese con particolari criticità. Le attività di particolare interesse nazionale, in quanto traino dell’economia, godono di ulteriori agevolazioni fiscali e lo stesso vale per quelle che sorgono in aree geografiche con livelli di occupazione più bassi e da allineare a quelle con maggiori potenzialità.

    Ad onor dal vero, va scritto che il boom economico israeliano ha avuto una fase di arresto fra il 2009 e il 2010. Netanyahu non ha però cambiato idea, aprendo ad interventi statali, e dal 2011 il Paese ha continuato a crescere registrando un + 2,6% sul PIL nel 2014 e un deficit del 2,8% nonostante i recenti conflitti abbiano obbligato ad una spesa imprevista per le ricostruzioni.

    Possiamo affermare che la Bibinomics funziona? Questi dodici anni ci suggeriscono di sì.

    Tutto sommato, che Netanyahu si stia effettivamente studiando l’italicum, ci interessa in maniera molto relativa. Sarebbe sicuramente più entusiasmante sapere da Renzi se lui nel frattempo stia studiando il modello israeliano.

    Bibinomics: la lezione di Netanyahu — di Lukas Dvorak – LeoniBlog.