Il caos alle frontiere esterne dell’Unione Europea e le divisioni UE fanno tornare prepotentemente d’attualità i confini nazionali, come scrive oggi benissimo Sabino Cassese sul Corriere. E’ un tema rilevante, e affrontarlo con mere prediche sull’errore della “chiusura” temo serva a poco. E’ un classico riemergente delle reazioni autarchiche alla globalizzazione, ed è un errore smentito dalla storia credere che siano autoevidenti gli effetti positivi dell’apetura delle frontiere a persone, beni, servizi e capitali. Ecco perché bisogna capire bene il problema posto ruvidamente dal Regno Unito. Bisogna capire se l’accusa di Londra ai mifranti euro-scrocconi è fondata, e soprattutto pensare a rimedi comuni. Se non lo si fa, i governi inseguiranno sempre più le reazioni domestiche filo-chiusura. Nella giornata di ieri, il presidente della Repubblica Ceca Milos Zeman chiede l’intervento delle forze armate a difesa dei confini nazionali dai flussi, e lamenta che l’annuncio unilaterale tedesco di garantire asilo ai siriani aumenterà il flusso attraverso il suo paese. Anche l’Austria e la Slovacchia raddoppiano i controlli, ogni giorno annunciando di aver fermato treni e TIR con clandestini diretti in Germania e Scandinavia. Le tensioni tra Grecia e Macedonia e ai confini dell’Ungheria restano alte. Come a Calais tra Francia e Regno Unito. Ed è stata proprio Londra ad aver infranto un altro luogo comune dell’euroretorica, secondo il quale basta rafforzare la vigilanza sulle frontiere esterne dell’Unione per risolvere il problema.
Non è così. Non sono più solo l’Italia e la Grecia, a lamentare la distanza abissale tra la retorica europea e le risorse e i mezzi concreti messi in gioco per affrontare l’esodo biblico in corso da Africa e Asia. Ogni paese europeo non ci crede più, e a furia di rinviare scelte europee davvero adeguate capiterà ciò che Londra ha avuto la malacreanza di minacciare apertamente: limitazioni unilaterali e non concordate alla libera circolazione delle persone “dentro” l’Unione Europea, per gli stessi cittadini europei. Ma la libera circolazione dei cittadini europei entro l’Unione non è cosa che si limiti al trattato di Schengen sui controlli spostati dalle frontiere interne a quelle esterne – intesa alla quale per altro il Regno Unito non aderisce, come Irlanda, Romania, Cipro, Bulgaria e Croazia. La libera circolazione degli europei è uno dei 4 pilastri dei Trattati e dell’idea stessa di Unione. Senza libera circolazione delle persone, dei beni, dei servizi e dei capitali, l’Unione europea semplicemente non c’è più.
Il problema posto da Londra è dunque un’altra faccia dell’incompiuta europea. Riguarda i flussi di immigrazione – temporanea o permanente – entro l’Unione europea stessa. Un fenomeno che riguarda soprattutto i paesi che, nella crisi dura post 2008 e post 2011, hanno ottenuto migliori performance economiche. Ricordiamo un po’ di numeri.
Nel 2014 dall’Italia che se la passa maluccio sono emigrate 101 mila persone rispetto alle 94 mila del 2013: 14.270 verso la Germania, 13.338 verso il Regno Unito, 11mila verso la Svizzera. Poi viene la Francia, e gli USA sono solo settimi come destinazione. I due terzi dei 100mila italiani espatriati in un anno sono restati nell’Unione europea. E non pensate che siano soprattutto dal Sud: uno su 5 se n’è andato dalla Lombardia, e nelle prime dieci regioni italiane di neoemigrazione solo tre sono meridionali. Ad andarsene, per un quarto sono giovani sotto i 30 anni. E per metà sono sotto i 40: è chi pensa a n futuro da costruire, ad andarsene. In Germania nel 2014 i neo immigrati hanno raggiunto 519mila unità, record da decenni: e di questi 306mila provenienti da altri paesi dell’Unione, più 125mila dalla sola Romania e Bulgaria, rispetto a 61mila siriani.
Il fenomeno è storicamente ancor più rilevante nel Regno Unito. E va però spiegata bene, l’uscita del ministro degli Interni britannico Theresa May dalle colonne del popolare Sunday Mail, “stop agli europei che vengono qui da noi senza avere già un lavoro, basta ai continentali che si trasferiscono solo per sfruttare il nostro welfare, assegni di disoccupazione, sanità gratis e aiuti alle famiglie”. Da una parte, è una sortita in linea con le promesse elettorali anti-immigrazione di David Cameron, “ridurremo gli immigrati annuali sotto quota 100mila”, che anche la stampa britannica filo-Tories nel maggio scorso giudicò non mantenibili. Dall’altra, in realtà pone un problema reale, figlio delle asimmetrie dell’Unione.
Vediamo i numeri. Nel 2013 e 2014 anche in UK l’immigrazione è aumentata, fino a quota 650mila unità annue nel 2014, a fronte di un’emigrazione annua di circa 300mila britannici. Dei 650 mila immigrati, a fine 2014 83mila erano “britannici di ritorno”, 268 mila cittadini Ue, e 290mila erano di provenienza extra-Ue. Dei 2,3 milioni di europei che a fine 2014 vivevano in Uk, solo a Londra quasi 250mila erano italiani. Sul flusso complessivo 2014, i richiedenti asilo erano – come in media negli ultimi anni – poco più di 20mila, 177mila gli studenti, 71 mila coloro che avevano raggiunto familiari in Uk, 214 mila cercavano lavoro, 63 mila quelli che non dichiaravano nessuna di queste ragioni. I conservatori sono convinti che il più dei 268mila immigrati 2014 provenienti dall’Europa un lavoro non ce l’avessero affatto, e che nelle more della ricerca approfittino del ricco welfare dell’Union Jack.
Peccato che siano le cifre ufficiali dell’equivalente dell’INPS britannico a smentire la convinzione dei “continentali a ufo”. A fine 2014 solo il 5,2% degli europei non britannici in Uk risultava percettore di assegni di disoccupazione e aiuti, il 14% riceveva crediti fiscali per il suo basso reddito, e il 13,6% detrazioni fiscali per i figli. Sono percentuali che si discostano da quelle dei percettori britannici per al massimo uno o due punti percentuali. Di qui le stroncature rimediate da Cameron e dal suo ministro May nella crociata contro gli immigrati europei: per quanto figlie di una strategia elettorale volta a contenere i danni populisti dell’UKIP sull’elettorato conservatore, i numeri dell’allarme britannico sugli immigrati intra-europei non tornano. Il vero rischio, ha scritto anche ieri il filo conservatore Daily Telegraph, è di dare un giro di vite ai giovani che scelgono il Regno Unito per studiare. Respingerli se appena terminati i corsi non hanno subito un lavoro sarebbe per Londra un autogol clamoroso, perché è arcinoto che attrarre i migliori cervelli dal mondo è da sempre uno dei moltiplicatori della crescita britannica.
Tuttavia, il problema esiste. E’ ovvio, che di fronte a un milione di profughi in arrivo nel 2015, tutti i governi si trovino a rispondere alle proprie opinioni pubbliche di analoghi incalzanti attacchi che da noi ogni giorno al governo arrivano da Salvini, e ogni settimana anche da Grillo. Si può credere che duri, alla lunga, un’Unione Europea in teoria basata sulla libera circolazione delle persone, ma in pratica con mercati del lavoro, retribuzioni e prestazioni del welfare tanto divergenti e asimmetriche? La risposta a questa domanda è una sola: no. Negli Stati Uniti gli assegni di disoccupazione e le prestazioni sanitarie di base, Medicare e Medicaid, sono federali e comuni a tutta l’Unione. Con economie statali che restano a diversi tassi di crescita, ma senza che a nessuno in Texas venga in mente di cacciare chi viene dall’Arizona.
Di conseguenza, la provocazione britannica ha due possibili risposte, se l’Unione europea tiene al suo futuro. O la Ue inizia gradualmente a pensare a una forma minima comune di sostegno a disoccupazione, bassi redditi e sanità, da estendere e implementare negli anni, e formulata all’inizio con corrispettivi parametrati ai livelli di reddito, inflazione e crescita dei diversi membri. Oppure la Ue adotta un principio che sarebbe rivoluzionario, quello del “mutuo riconoscimento” che già si applica ai beni, ma non ai servizi – vedi il clamoroso insuccesso della direttiva Bolkenstein, sotto le resistenze nazionaliste scatenatesi in ogni paese europeo – e tanto meno per il welfare. Il mutuo riconoscimento consentirebbe a ogni cittadino europeo di essere libero di spostarsi laddove vi sia più lavoro e crescita del proprio capitale umano, ma “portandosi dietro” regole e prestazioni del proprio welfare. Un meccanismo tanto rivoluzionario, che spingerebbe inevitabilmente e automaticamente gli euromembri a convergere verso un modello comune. Perché in caso di welfare costosi e inefficienti – come quello italiano – i propri cittadini risulterebbero duramente penalizzati, visto che nessun imprenditore britannico assumerebbe a quel punto dipendenti italiani al prezzo del nostro spaventoso cuneo fiscale…