Nella storia, dello Stato si sono date tante definizioni. Nel secondo dopoguerra, l’avvento anche in Europa della democrazia ci ha fatto lasciare alle spalle enunciati estremi come Der Staat ist Macht, lo Stato è potenza, che piaceva all’hegelismo tedesco e produsse i totalitarismi. Ai tempi nostri, lo Stato dovrebbe essere di conseguenza innanzitutto certezza del diritto. Ma nella nostra Italia per moltissimi versi non è affatto così. E ciò spiega una bella fetta del distacco che gli italiani esprimono verso le istituzioni. Non si deve solo alla concezione che politica e partiti hanno dello Stato, come di uno strumento spesso al proprio discrezionale servizio. Ormai la crisi dello Stato investe anche quelli che dovrebbero essere i pilastri di garanzia dell’autonomia dello Stato dalla politica, per fondarsi solo sulle leggi: cioè prefetti e i magistrati. E’ esattamente ciò che viene riproposto da alcune delicatissime vicende in corso.
Cominciamo da Roma. Nel nostro ordinamento, spetta al prefetto ordinare la precettazione – cioè l’obbligo alla prestazione e all’offerta di un servizio – nei confronti di astensioni lavorative che avvengano in violazione delle norme vigenti, a tutela dei diritto dei cittadini. E’ una materia di cui già molte volte ci siamo occupati, sottolineando la necessità di nuove norme rispetto ai codici di autoregolazione per categoria e azienda oggi vigenti. Il premier Renzi e il ministro dei Trasporti Delrio più volte hanno promesso interventi in tal senso. Che non si sono visti. Sta di fatto che Roma vive da più di settimane l’enorme disagio di servizi di trasporto annullati e ritardati a raffica e senza preavviso, dovuti allo sciopero bianco del personale ATAC, che rifiuta i badge adottati dall’azienda per il controllo dell’orario di lavoro effettivamente prestato. La protesta avviene in totale spregio delle norme previste a tutela dei passeggeri. Si è giunti a contingentare i passeggeri per stazione, per evitare proteste di massa. Ma quando si contingentano i passeggeri che pagano e non si interviene su chi viola la legge, lo Stato innalza bandiera bianca sulle sue stesse leggi.
L’Autorità garante dei Trasporti ha chiesto giustamente al prefetto di Roma di non tergiversare oltre, e di precettare visto che lunedì è annunciato un nuovo sciopero. Ma ecco che scatta la malattia pubblica italiana numero uno: la discrezionalità al posto della certezza della norma. La tensione aperta tra sindaco di Roma, presidenza del Consiglio e Pd, produce appelli riservati al prefetto perché si astenga dal precettare, e convinca piuttosto i sindacati con le buone. Ieri, il primo incontro è andato puntualmente a vuoto. E poi, come si fa a precettare i dipendenti dell’ATAC, quando venerdì il suo cda dovrà adottare un bilancio consuntivo 2016 con perdite di altri 60 milioni? Quando cioè le perdite cumulate dall’ATAC saranno di 1,3 miliardi dal 2007 e 1,55 miliardi nel decennio, perdite che sommate al debito esistente di 1,6 miliardi obbligheranno all’ennesima ricapitalizzazione d’urgenza visto quella di 3 anni fa per 1 miliardo è svanita? Ricapitalizzazione che dovrà essere autorizzata e compiuta dal governo, visto che il Campidoglio non ha certo i 200 milioni necessari, ancora una volta dunque dal governo nazionale dopo 2 interventi straordinari salva-debito a favore di Roma per oltre 14 miliardi, adottati sotto il sindaco Alemanno e attuale?
Sono cifre devastanti, l’ATAC e l’AMA di Roma sono oggi il vertice del disastro nazionale delle società pubbliche locali. Ma in nessun caso tutto ciò dovrebbe consentire allo Stato di chiudere un occhio sull’oltraggio quotidiano portato a centinaia di migliaia di romani. Eppure, il prefetto non precetta. E lo Stato muore, di fronte ai cittadini.
Secondo esempio. Che riguarda sempre i prefetti, ma questa volta per le loro prerogative nella delicatissima materia dell’assegnazione degli immigrati ai Comuni. Dopo la sostituzione disposta dal governo del prefetto di Treviso, a seguito della sollevazione della popolazione di Quinto contro dei rifugiati in case di edilizia privata e delle roventi polemiche scatenatesi con il presidente del veneto Zaia, il sindacato dei prefetti ha levato la voce. “Basta considerarci capri espiatori”, ha detto. A parte la singolarità che anche i prefetti in Italia siano sindacalizzati, la questione riguarda ancora una volta l’imparzialità della legge, visto che nel nostro ordinamento napoleonico il prefetto rappresenta lo Stato centrale nei territori. Tra assegnazioni delle quote di rifugiati da parte del Viminale agli Enti Locali, e concreta scelta delle strutture pubbliche o private alle quali assegnarle, è il prefetto a dover esercitare scelte molto rognose. Come insegna la maxi indagine su Roma Capitale, sono scelte pericolose per il rischio di evitare bandi di gara e procedure trasparenti, e ardue poiché al prefetto si chiede insieme di mediare con la politica locale, e di valutare possibili tensioni da parte dei residenti. Anche sugli immigrati, la politica tira per la giacchetta i prefetti, che diventano non più garanti dell’esecutività di una norma, ma mediatori politico-culturali. E lo Stato muore un’altra volta, perché agli occhi dei cittadini, che non capiscono e protestano, il prefetto appare come il terminale ultimo di un grande scarica-barile istituzionale. E se i prefetti credono di rimediare a propria volta protestando pubblicamente contro lo Stato, ecco che il bailamme diventa generale.
Terzo esempio. Questa volta riguarda i magistrati. Si moltiplicano le ordinanze attraverso le quali pm e gip dispongono sequestri di beni strumentali produttivi, input e ouput della produzione. Dall’Ilva di Taranto a Fincantieri a Muggia, l’estensione delle facoltà di misure cautelari di sequestro disposte dalla magistratura in fase d’indagine preliminare – cioè inaudita altera parte – ha compreso nel tempo elementi sempre più vasti rispetto a quelli essenziali indicati nei codici: i conti dell’impresa, il patrimonio personale dei suoi soci, gli impianti produttivi, le materie prime necessarie a produrre, i depositi delle medesime e degli scarti di produzione, il prodotto finale. Se e quando la politica ha deciso d’intervenire con decreti ad hoc – visto che, ripetiamolo, si tratta di un’estensione autoevolutiva delle facoltà del magistrato – la magistratura ribatte sconfessando i decreti legge, appellandosi alla Corte Costituzionale ma intanto reiterando le proprie misure. I vertici nazionali dell’Associazione Nazionale Magistrati rilasciano interviste nelle quali affermano che non spetta al magistrato valutare le conseguenze economiche e occupazionali delle proprie decisioni. Restano isolate voci come quelle di Sabino Cassese, ex giudice costituzionale che da queste colonne ha ribadito che un giudice non può far spallucce a una norma di legge per il solo fatto di non condividerla. E come quella di Nello Rossi, per otto anni coordinatore del pool economico alla procura di Roma, per il quale al contrario l’esame delle conseguenze economiche rilevanti non può che costituire dovere imprescindibile da parte di un magistrato all’atto di emanare un provvedimento, in nome della proporzionalità e della congruità degli interessi pubblici da tutelare.
Può il giudice sostituirsi alla legge? Può il prefetto disapplicarla? Possono entrambi anteporre convinzioni proprie e interessi da mediare, a ciò che lo Stato deve essere a apparire, cioè imparziale e non discrezionale? La risposta è una sola: no. Ma in Italia è sempre più: invece sì. Non lamentiamoci, poi, se allo Stato credono in pochi.