Una, nessuna e centomila austerity – LeoniBlog
9 years ago
C’è una cosa, nell’intricato risiko economico in cui si è andata a cacciare l’Europa, su cui sono (quasi) tutti d’accordo, a maggior ragione dopo il referendum greco: l’austerity ha fallito. L’abbiamo sentito ripetere tante volte, con assoluta nonchalance, come un concetto dato per scontato. Una di quelle frasi ad effetto che l’applauso degli studi televisivi lo fanno scattare a prescindere. E che, tuttavia, tanto scontato forse non è. La parola austerity deriva dal latino austerus, che significa duro, severo, rigido, aspro, crudele. L’esegesi non fa sconti: l’arrivo dell’austerity non promette nulla di buono. In passato, si usava questo termine soprattutto per descrivere politiche contraddistinte da gravi restrizioni, ad esempio i razionamenti di cibo durante periodi bellici. Situazioni alle quali sono oggi paragonate le manovre di politica fiscale volte a correggere gli squilibri macroeconomici dell’Eurozona; cioè, di fatto, a rimettere i conti in ordine a quegli Stati che, in passato, hanno speso ben più di quanto “guadagnassero”. E che spesso continuano a farlo.
Come ha spiegato perfettamente Luca Ricolfi sul Sole 24 Ore qualche giorno fa, c’è austerity e austerity. Un conto è alzare le tasse, un altro è diminuire la spesa pubblica. Sono scelte macroeconomiche diverse, anche se non incompatibili. Viceversa, un recente paper di alcuni economisti, tra cui Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, ha dimostrato come aumentare la spesa e le tasse contemporaneamente sia controproducente, perché il deficit rimane tale e quale, mentre il tessuto produttivo continua a sfibrarsi. Eppure, è proprio ciò che è stato fatto per diversi anni in molti Paesi dell’eurozona, Italia compresa. È vero che gli aumenti di spesa, nei periodi di crisi e anche in questa circostanza, sono riconducibili anche al calo del PIL e all’incremento degli interessi sul debito pubblico. Ma non per questo la classe politica degli ultimi anni detiene meno responsabilità. Sia perché in molti Paesi, tra cui l’Italia, la spesa è aumentata anche al netto degli interessi, sia perché comunque tali circostanze non giustificano in ogni caso la reazione opposta a quella resasi necessaria, vale a dire l’ulteriore allargamento della sfera pubblica nell’economia.
Alcuni fra i Paesi che hanno adottato “l’altra austerity”, quella che riduce l’estensione e l’influenza della sfera pubblica, hanno ottenuto risultati straordinari. Ad esempio, scontrandosi con un calo del PIL del 4% nel 2008 e del 14% nell’anno seguente, l’Estonia, invece di aumentare la spesa pubblica, la ridusse notevolmente (tagliando del 10% gli stipendi pubblici) e nel frattempo riformò il mercato del lavoro e il sistema pensionistico. Risultato: il PIL è cresciuto del 3.4% nel 2010, dell’8.3% nel 2011 e del 4.7% nel 2013, di fatto riportando l’economia del Paese ai livelli pre-crisi, con un debito pubblico e una disoccupazione inferiori al 10%.
Quello estone non è un caso isolato. Nel 1990, a seguito di un lungo e doloroso periodo di stagnazione (scaturito da una grave crisi bancaria), la Svezia avviò una serie di riforme senza precedenti, perseguendo, nel frattempo, una rigorosa politica fiscale. Sia i socialdemocratici che i partiti di centrodestra contribuirono a ridurre le aliquote fiscali marginali; mercati finanziari, energia, telecomunicazioni e media furono deregolamentati; il sistema pensionistico venne completamente riformato; fu ammesso l’intervento dei privati in materia di salute, cura e assistenza degli anziani; fu introdotto un sistema di voucher scolastici sul modello ideato da Milton Friedman. Erano altri tempi, ma nel Paese scandinavo l’insegnamento non è andato dimenticato. Di fronte all’incombere della recessione, nel 2009, l’allora ministro delle finanze, Anders Borg, ha ridotto la pressione fiscale con decisione (dal 52 al 44% del PIL), abolendo le tasse sulle donazioni, sulle eredità, sul patrimonio e sulle abitazioni. Negli anni successivi, la Svezia ha registrato una crescita superiore a quella di qualunque altro paese europeo e ha ridotto il debito pubblico a circa il 30% del PIL.
La cura alla crisi sono le riforme che rendano competitiva l’economia di un Paese, ma una politica fiscale restrittiva può costituire una premessa necessaria a metterle in atto. Negli ultimi anni, in Spagna, contemporaneamente a drastici tagli di spesa, è stato reso decisamente più flessibile il mercato del lavoro (ad esempio riducendo della metà i costi dei licenziamenti per le imprese in difficoltà), è stato rivisto il sistema pensionistico e le banche sono state rifinanziate dalla BCE. Tali misure hanno provocato forti tensioni e proteste, ma nel 2014 la Spagna è cresciuta dell’1.3% e oggi può permettersi di ridurre la pressione fiscale, forte del notevole tasso di crescita previsto per il 2015. Anche Portogallo e Irlanda – dopo essere passate per il severo bisturi della famigerata Troika – hanno ricominciato a crescere (rispettivamente dello 0.6, 0.9 e 3.6% nel 2014).
Che il piano di salvataggio greco abbia funzionato male – e certamente peggio degli altri nell’Eurozona – è verosimile. Ma prendersela con l’austerity, come se questa rappresentasse una politica fiscale precisa, è quantomeno miope. Anche a causa di un argomento per così dire controfattuale: cosa sarebbe successo se, quattro anni fa, non fosse stato intrapreso il piano di risanamento stabilito dalla Troika? Impossibile dirlo. Forse ci sarebbe stata un’improvvisa e miracolosa crescita economica. Più probabilmente, si sarebbe innescata un’austerity ben peggiore di quella contro cui si è scagliato il governo targato Tsipras. Un’austerity molto più vicina alla sua drammatica origine etimologica, che non riguarda tagli al welfare, ma – in una fase iniziale – ulteriori forti aumenti dei tassi d’interesse, prelievi forzosi dai conti correnti dei cittadini e un ulteriore indebolimento del settore bancario. In poche parole: la premessa al default. Vi ricorda nulla?