Magnifica fregatura | Davide Giacalone
9 years ago
Le tasse universitarie crescono tanto e in fretta, ma il problema principale è che sono tasse, senza alcun rapporto fra quel che si paga e la qualità degli studi che si fanno. Il prezzo di una cosa può essere alto o basso, ma mai in senso assoluto, bensì in relazione a quel che si ottiene. A tutti è nota la differenza fra una zucchina e il caviale, né avrebbe senso paragonare il prezzo della prima al secondo. Questo non senso, invece, è pienamente vigente nelle scuole e nelle università italiane, ove le pur esistenti differenze qualitative non si riflettono né in differenze di valore dei titoli di studio, né in quattrini necessari per arrivarci.
L’Unione degli universitari (associazione studentesca che si autodefinisce “sindacale”) ha eseguito un’operazione imprecisa, ma significativa, dividendo, in ciascuna università, il gettito da tasse per il numero degli iscritti. E’ imprecisa, perché fra quelli c’è chi è esonerato dal pagamento e chi, invece, paga più della media, essendo alto il reddito familiare (o solo perché i genitori non sono evasori fiscali, dato che quel sistema premia chi evade). E’ significativa perché dimostra come le tasse siano cresciute del 5% in un anno e del 51% in dieci. E stiamo parlando di anni a bassa inflazione, quando non negativa (deflazione). Andando oltre la media si scoprono cose ragguardevoli: le tasse sono cresciute del 189% a Lecce, del 135 a Varese, 132 a Trento, 124 a Verona e Bari, 112 a Cagliari, e così via.
Contrariamente a quanto sembrano provare i giovani dell’Udu, questi dati non mi scandalizzano. E’ giusto che il costo degli studi sia sostenuto significativamente da chi li frequenta e, quindi, ne trarrà beneficio. Lo scandalo consiste nel chiedere alle famiglie di pagare, ma senza dare uno straccio di dato sui risultati e la qualità. Tasse, appunto, non rette. Obbligo, appunto, non scelta.
In gran parte soldi buttati sull’altare di una divinità tarocca: il valore legale del titolo di studio.
Quello è il totem da abbattere, se si vuole puntare alla qualità e alla comparabilità.
Sostiene Gianluca Scuccimarra, coordinatore dell’Udu, che “è venuto il momento di operare una riforma complessiva del sistema, che riduca il peso delle tasse, soprattutto per i redditi più bassi, e introduca un criterio forte di progressività, omogeneo in tutti gli atenei”. No, si deve fare l’esatto contrario. Quella è la ricetta del socialismo dell’ignoranza. Quello è un futuro che somiglia al peggiore passato. Questo è un sindacalese che fa apparire decrepito anche un giovine. Gli atenei non sono tutti uguali, e ciò deve riflettersi anche sul loro costo. Il diritto allo studio non consiste nel concedere a tutti i redditi di languire in un diplomificio, ma di assicurare ai meritevoli di sopravanzare i somari, che, poi, è la sola ricetta capace di trasformare i poveri in ricchi (e di concedere ai figli dei ricchi, ove meno capaci o incapaci, il raro privilegio di mangiarsi il patrimonio, redistribuendolo). La giustizia sociale, nelle università, è assicurata dal prestigio e dalle rette che dipendono dai risultati ottenuti, talché un giovane promettente, ma povero, non solo non lo fanno pagare, ma se lo contendono, perché alzerà la media dei risultati, accrescerà il prestigio dell’ateneo e, quindi, le richieste di denaro che potranno essere fatte a chi voglia frequentarlo.
Le “tasse” producono due negatività. Intanto sono funzione della spesa, non di progetti didattici o investimenti nella qualità. Crescono perché sono diminuiti i finanziamenti governativi, quindi si paga di più senza avere nulla di più. Poi consentono gestioni feudali. In un sistema più libero e aperto non avrei nulla in contrario a che il rettore metta in cattedra la moglie, ma gli chiederei quanto intende pagarmi se convincessi mio figlio a frequentare quella famiglia di cattedratici. Con le tasse, invece, devo pagare io per potere frequentare il magnifico. Che mi pare una magnifica fregatura.
Davide Giacalone
www.davidegiacalone.it
@DavideGiac
Pubblicato da Libero