Intervista di Antonluca Cuoco, originariamente pubblicata su www.ildenaro.it.
Il debito pubblico italiano è l’emergenza della nostra epoca: la sua presenza è una minaccia costante per il nostro futuro,
per i nostri sogni e progetti. Creatura quasi mitologica per le giovani generazioni, condiziona e condizionerà la nostra vita personale, riducendo la nostra capacità decisionale, incidendo direttamente nella vita di ogni giorno.
La crisi finanziaria che stiamo ancora vivendo è solo un’aggravante alla crisi economica e sociale che vediamo in Italia ed al suo declino da almeno 20 anni a questa parte. Questa crisi non è nata in Italia o in Grecia, ma l’atrofizzarsi dell’economia globale ha ridotto le entrate fiscali per tutti i paesi, e gli stati fiscalmente più deboli, e cioè con un debito pubblico maggiore, si sono trovati in prima linea. L’economia italiana oggi paga i decenni di indebitamento folle dello stato italiano. Una politica fiscale che ha speso addirittura di più di quanto tassava, drogando temporaneamente la crescita con una spesa pubblica eccessiva, e con investimenti pubblici che evidentemente non hanno lasciato traccia di maggiore crescita.
Per quanto questo quadro sia noto e ricco di evidenze, in Italia – come in tanto mondo occidentale – cresce la domanda di Stato e sebbene la crisi finanziaria iniziata nel 2007 sia stata causata in grandissima parte da regolamentazione e intervento pubblico, la fiducia nell’interventismo non accenna a incrinarsi.
Il crack finanziario affonda le sue radici nel 2001, quando per combattere la recessione – verificatasi dopo lo scoppio della bolla del NASDAQ nel 2000 – Alan Greenspan manipolò i tassi di interesse portandoli ad un valore artificiale estremamente basso: dal 6,5% del 2001 all’1% del 2003.
Quando poi nel 2006 vennero lentamente riportati al 5,25%, si crearono le condizioni ultime per il terremoto sul mercato immobiliare. I tassi d’interesse, manipolati al ribasso, erano stati ottenuti inflazionando l’offerta di moneta: una tipica operazione che va contro la logica liberista. Proprio l’interventismo ed il “credito facile” orchestrati dalla FED negli anni precedenti generarono una ricchezza illusoria ed il conseguente crollo del risparmio privato: l’euforia dei mutui facili si trasformò in disastro nel 2007.
Un altro fattore per la crisi fu la promulgazione nel 1999 da parte di Bill Clinton della legge bancaria Gramm-Leach-Bliley Act, sancendo la caduta della differenziazione tra banca commerciale e banca d’investimento.
L’eccesso di finanza alimentato dalle garanzie pubbliche (scelta politica), dalle regolamentazioni (scelte politiche) e dalle politiche monetarie ha funzionato come la FIAT con l’IRI: non è un vero mercato quello in cui manca la responsabilità individuale!
Enrico Colombatto è Professore ordinario di Politica economica all’Università degli Studi di Torino e da poco è nelle librerie un suo testo perfetto per analizzare i temi legati ai Mercati, alla morale ed all’intervento pubblico che è anche il sottotitolo del lavoro L’economia di cui nessuno parla.
A chi attribuire la colpa della crisi che stiamo vivendo? Per alcuni gli imputati saranno sempre il libero mercato senza regole, come se vivessimo in un sistema liberista selvaggio.
In questi anni abbiamo attraversato una doppia crisi: quella provocata da una spesa pubblica eccessiva e fonte di sprechi e quella provocata dalla mancata crescita. Anche se i due fenomeni sono fra loro collegati, le cause sono (1) il populismo irresponsabile dei nostri governanti e la miopia di chi li ha eletti; (2) gli eccessi di tassazione e regolamentazione che hanno finito per scoraggiare la nostra imprenditorialità e deprimere gli investimenti. La responsabilità della crisi non va individuata nei meccanismi di un libero mercato privo di regole o in una fantomatica speculazione finanziaria
bensì nelle misure decise dagli Stati e dalle varie banche centrali, le quali hanno distorto i meccanismi di mercato, inondando l’economia di moneta, abbassando artificialmente i tassi di interesse, “ingannando” così gli operatori economici e innescando la “bolla” speculativa.
Le politiche di austerità e la legge sul pareggio di bilancio tendono al concetto «non puoi spendere ciò che non hai» ma in Italia si è scatenato il tiro al bersaglio trasversale verso il Fiscal Compact, come mai?
Ci sono due tipi di debitori in difficoltà: quelli che si tirano su le maniche e cercano di rimettersi in sesto e quelli che danno la colpa ai creditori. Molti Italiani appartengono alla seconda categoria. I meccanismi perversi che hanno contribuito alla crisi, ad esempio, sono stati tutti creati da autorità pubbliche, la cui invasività nell’economia è all’origine degli attuali problemi economici dei vari paesi. Ricordiamo inoltre – a proposito invece delle scelte di politica espansiva – che di per sé l’acquisto di titoli di stato non crea ricchezza ma è una forma di salvataggio. Se è vero – come è vero –che i nostri paesi sono sovraindebitati perché hanno vissuto al di sopra delle proprie possibilità, l’acquisto di titoli da parte della Bce consente il perdurare di una situazione anomala. I tagli sono dolorosi, è vero, ma è meglio tagliare subito piuttosto che continuare a spendere per poi trovarsi con un debito insostenibile, non rimborsabile. Personalmente sono contro l’austerità all’italiana, che si traduce solo in un aumento della imposizione fiscale, ma sono a favore di
una austerità intesa come riduzione del settore pubblico e dei suoi grandi sprechi di risorse.
La corruzione, le mafie, il clientelismo, l’alto costo dell’energia, la carenza di infrastrutture, la saturazione dei tribunali, il carico fiscale sul lavoro, la mancanza di meritocrazia, l’instabilità politica e l’inefficienza della burocrazia sono i nostri problemi, e non è l’Euro la causa. Quanto urge rispiegarlo?
Sì, è opportuno sottolinearlo, ponendo l’accento sulla perenne variabilità della normativa e sull’eccessiva regolamentazione. Non nascondiamoci dietro l’euro per giustificare i problemi italiani che, tra l’altro, non si risolvono con la politica monetaria, politica che al massimo può contribuire a tamponare. La prospettiva economica dominante – che non è la mia – ragiona sulla base di “aggregati” macroeconomici (il Pil, i consumi, la spesa pubblica, il moltiplicatore keynesiano). Questa insistenza sugli aggregati macro induce a pensare che le soluzioni siano necessariamente “macro”, giustificando così l’intervento pubblico, considerato migliorativo e risolutivo di presunti problemi economici; un intervento che, invece, ha effetti incerti e imprevedibili, distorce i prezzi di mercato e, conseguentemente, le informazioni che i cittadini utilizzano per perseguire i propri interessi individuali. Il risultato finale è l’impossibilità di compiere le scelte economiche più convenienti. Da decenni l’Italia soffre di bassa crescita della produttività. L’ingresso dell’euro ha contribuito a nasconderla garantendo bassi tassi di interessi sul debito e consentendo politiche fiscali espansive – una specie di droga. Contribuiscono a questa bassa produttività un sistema giudiziario inefficiente ed un sistema bizantino di regolamentazione burocratica, oltre ovviamente al peso di un fisco perverso con norme che cambiano con eccessiva frequenza. Mancano poi l’istruzione tecnica e scientifica per formare capitale umano più preparato e vicino alle esigenze delle imprese.
Si sente spesso dire “la crisi è nata dalla troppa libertà economica USA”. Perché questa versione è fuorviante rispetto ai fatti accaduti?
Gli Stati Uniti sono un Paese dove la spesa pubblica è non lontana dal 40% del Pil, la regolamentazione è molto diffusa e lo stato viola frequentemente i diritti di proprietà individuali. Non mi sembra che siano queste le caratteristiche di un sistema liberista.
Possiamo comprendere che analizzare una crisi come quella in atto non è semplice, né tantomeno immediato. Fino a prova contraria, però, l’unico sistema che ha sempre fallito è stato quello della pianificazione economica di stampo comunista e socialista. Come commentare ciò, vivendo nel 2015?
È assolutamente vero. Aggiungerei che, se accolte, le varie proposte di accentramento o armonizzazione fiscale in sede di UE non potranno che condurre a un peggioramento della situazione. La legittimazione dell’interventismo statale, giustificato con il perseguimento del “bene comune” e della “giustizia sociale”, porta inevitabilmente alla formazione di gerarchie e gruppi di potere che decidono e impongono a tutti i loro valori attraverso il potere coercitivo dello Stato. Quindi, con il pretesto di perseguire una idea astratta di giustizia, si apre la strada all’intervento pubblico senza freni che provoca gravi violazioni dei diritti di proprietà, allo scopo di redistribuire ricchezza, fallendo miseramente.
Diceva Adam Smith: «Ciò che è saggezza nella gestione di ogni privata famiglia, difficilmente può risultare follia nel governo di un grande regno». Gli Stati già fanno però cose che nessun altro può fare: se vengo fermato dopo aver rapinato una banca, ho un bel dire alla polizia che volevo soltanto ridurre le diseguaglianze. E ci son Stati che chiedono di considerare i loro debiti carta straccia…
La reazione di qualunque debitore in difficoltà consiste nel cercare un modo per ridurre o cancellare il debito. La Grecia ne è un esempio. E se i tassi d’interesse dovessero risalire, ve ne saranno degli altri. La sola soluzione è quella di partire da ideali basati sui principi primi che per un liberale sono tre: il diritto all’incolumità fisica (il diritto a non essere aggrediti), la dignità individuale (tutte le preferenze sono legittime se non producono danno alla libertà altrui) e la difesa della proprietà privata, accompagnata sempre dal principio di responsabilità individuale. Questi principi si traducono poi concretamente in politiche che tendono alla difesa della libertà di contratto (lo Stato non può vietare la stipulazione di contratti tra adulti consenzienti.)
Mentre gli Stati – come la Germania – che assurgono a difensori dei vincoli di bilancio, come agiscono in Ue?
In Germania la Merkel ha un problema di politica interna. L’opinione pubblica teme di doversi fare carico del debito pubblico di altri paesi europei. La Merkel reagisce cercando di rasserenare i cittadini-contribuenti tedeschi. In effetti, se la Germania avesse voluto fare sul serio, lo avrebbe potuto fare qualche anno fa, respingendo i vari pacchetti di bail-out.
“Sul Grand Canyon c’è un cartello a caratteri cubitali che dice: “Non dare da mangiare agli animali selvatici”. In caratteri più piccoli spiega che in questo modo gli animali perderebbero la capacità di andare in cerca di cibo, mettendo a repentaglio la loro sopravvivenza nell’ambiente naturale. Lo stesso vale in economia. Individualmente, ogni imprenditore ha vita più facile se foraggiato dal governo ma nel suo complesso il sistema di mercato peggiora. Queste semplici lezioni perché sono così difficili da cogliere?
No, no. Siamo tutti consapevoli che i sussidi sono un danno per la crescita e un’ingiustizia. Il punto è che i potenziali beneficiari non ritengono quei flussi di denaro “sussidi”, ma “diritti”. E i contribuenti, anche quando consapevoli dell’ingiustizia subita, si ritengono essi stessi beneficiari perché a loro volta fruitori di altri presunti diritti, e dunque beneficiari di altri sussidi, più o meno palesi. Alla fine, tutti tacciono perché temono che l’azzeramento dei privilegi li penalizzi.
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