Governo nazionale e regioni: una strana coppia | Massimo lo Cicero
10 years ago
Le regioni italiane tra isolamento e mancate relazioni con una strategie di riforme nazionali ed europee
Siamo vicini alla tornata elettorale ma non si nota alcuna euforia da parte dei partiti, che si accingono alla competizione per la Regione, e non si nota alcuna attesa od orientamento, da parte dell’opinione pubblica, non essendo stati ancora elencati contenuti o strategie per rimettere in piedi la Regione più grande del Mezzogiorno, la Campania, che è anche abbastanza fragile e difficile da governare.
Le Regioni non sono state un successo nella storia italiana.
Nascono per una ripicca delle sinistre, che le accettano nella Costituzione solo dopo la svolta di Einaudi e De Gasperi, che avevano mandano all’opposizione le sinistre stesse. Appaiono sulla scena nel 1970 e vivacchiano quasi per venti anni. Seguono le note vicende (ascesa e discesa dell’opzione federalista) ed il progressivo degrado, economico ed istituzionale, dopo il 1992. La crisi della istituzione Regione è evidente: non sono Stati autonomi, ovviamente; sono troppe e troppo diverse per dimensioni, strutture economiche e demografiche ed anche per qualità e dimensioni delle gerarchie amministrative che hanno creato; sono state una fonte di disordine amministrativo e, per larga parte, di una notevole incapacità strategica e di una stravagante e frazionata autonomia nella distribuzione delle ricorse finanziarie disponibili. Non dovevano essere enti locali ma strumenti di programmazione: ambizione tradita che è diventata, invece, una sorta di autarchia presuntuosa. Certamente non sono Parlamenti o Governi e non devono essere considerate come una sorta di ministati sovrani.
Le funzioni operative, che avrebbero dovuto essere indirizzi e non mera gestione, sono sette, in ordine decrescente di dimensione rispetto ai loro bilanci: la sanità; i trasporti; l’agricoltura; la formazione e la gestione parziale del mercato del lavoro; la tutela ambientale; l’urbanistica e gli assetti territoriali; un insieme minimo di attività collegate all’artigianato ed alle piccole imprese, all’innovazione tecnologica ed alla cultura. Per gestire queste funzioni le Regioni usano una parte delle imposte e delle tasse che la popolazione paga ed una parte, più rilevante nel sud che nel centro nord, di “Fondi europei”: che sono, anche in questo caso, una quota delle imposte e delle tasse, che l’Italia versa all’Unione Europea, e la Commissione Europea ridistribuisce secondo criteri di sostegno strutturale alle Regioni italiane, ma con un credito residuo che rimane alle altre regioni europee, anche se i fondi vengono dalle imposte e tasse degli italiani. Spesso i fondi assegnati non vengono utilizzati ed anche in questo caso vengono restituiti ed attribuiti ad altre regioni e stati europei.
Questa massa di risorse fiscali si traduce in un insieme di funzioni tipicamente redistributive: non creano ricchezza ma impiegano i proventi fiscali per servizi sociali o di pubblica utilità. Sanità, trasporti ed ambiente sono sistemi che assicurano servizi e tutela grazie alla finanza pubblica. Anche i sussidi alle imprese, agricole, artigiane o piccole e medie, come i supporti al mercato del lavoro ed alla formazione, seguono il medesimo percorso. In effetti le regioni sono centri di redistribuzione della ricchezza prodotta ma, non avendo creato progetti ed organizzazioni di valore strategico, finiscono per diventare un ponte di trasferimento a gruppi ed interessi collegati alle funzioni assegnate. Non sono centri strategici e di indirizzo ma finiscono per somigliare molto agli enti locali: creando una strana combinazione di interessi tra gli utilizzatori di questi trasferimenti e la creazione di aree elettorali che possano compensare, alla scadenza delle legislature, una relazione tra gli eletti e la loro funzione redistributiva.
Nel tempo questa funzione di collegamento si svolgeva attraverso i partiti politici. L’esaurimento progressivo dei quali si è consumato nella stagione di mani pulite agli inizi degli anni novanta. Da allora siamo passati a partiti sempre più liquidi, sempre meno ideologici, sempre più condizionati dalle persone che si presentano sulla scena politica come leader personali. Questo processo ha accentuato la dimensione autarchica delle regioni. Ed ha creato la mitica figura dei Governatori e delle loro giunte “nominate”. Proprio perché la relazione tra i gruppi, che ricevono utilità finanziaria e servizi, ed i gruppi che decidono come articolare questi canali redistributivi, si saldano a prescindere da opzioni strategiche, da opzioni ideologiche, da logiche politiche o da dinamiche fluide. Rimane quindi sulla scena solo la dimensione del personale politico e dei gruppi interessati alla redistribuzione sul territorio delle masse fiscali disponibili nazionali o presuntamente europee che siano.
Nel Mezzogiorno, ed in Campania, questa tensione, autarchica e circolare, è stata molto accentuata dagli anni novanta in poi.
La dimensione degli apparati burocratici delle regioni meridionali, inoltre, rappresenta una massa significativa di attori, più ampia di quelli che si collocano nel nord del paese: e dunque crea una vero e proprio triangolo tra personale politico (nelle giunte e nei consigli regionali), popolazione e strutture amministrative. Ecco una differenza tra il corto circuito del rapporto tra Sindaci e popolazione comunale e la mediazione più complessa che deve avvenire tra gli organi politici della Regione, strutture amministrative centrali ed intermedie (si pensi alla dimensione degli apparati della Sanità e dei Trasporti ma anche a quella della gestione dell’ambiente e dei territori, attraverso gli stessi comuni), sistemi di interessi diffusi e lobbies che devono interagire con le prime due categorie di attori.
La Campania è la regione più grande del Mezzogiorno ma è fragile nella sua struttura industriale ed economica, ed è debole, come tutto il Mezzogiorno, rispetto alle politiche guidate dal Governo: ha una reputazione negativa, verso le altre regioni meridionali, per la difficile vicenda del continuo e progressivo degrado della metropoli napoletana. Chiunque vinca il Governo della Regione Campania si troverà di fronte ad una diffidenza del Governo verso il Sud: che è molto evidente. Dunque, si troverà di fronte all’impotenza della redistribuzione ed al mancato supporto di una strategia economica nazionale, che possa alimentare la crescita e ridurre la fragilità della regione. D’altra parte ridursi all’isolamento autarchico non riuscirebbe assolutamente a creare un equilibrio, ancorché molto più basso degli equilibri esistenti nel Centronord.
Siamo, a Napoli ed in Campania, di fronte ad una difficile scommessa. La via di uscita potrebbe essere una grande macroregione, con una città metropolitana che si rigenera, Napoli, ed un sistema territoriale, più forte nella sua economia e nella sua dimensione sociale nel Mezzogiorno continentale, in particolare in Puglia ed in Basilicata. In queste condizioni si potrebbe creare un triangolo tra la metropoli napoletana, il Mezzogiorno continentale ed il Governo nazionale. Si uscirebbe dalla gestione della redistribuzione e si potrebbe immaginare la strada di una crescita, che è quello che ci indica da tempo l’Unione Europea: le riforme sono e devono anche essere e diventare l’abbandono di pratiche obsolete sul terreno politico e su quello istituzionale.
Questo testo è stato pubblicato nel secondo dorso de Il Mattino di Napoli, il primo maggio del 2015 con il titolo “L’analisi, La Campania e il fantasma delle riforme”
Link utili
Istruzione, legalità, sviluppo economico, Lectio magistralis di Salvatore Rossi Direttore Generale della Banca d’Italia, Palermo, 29 aprile 2015
BANCA CENTRALE EUROPEA, Bollettino Economico, Numero 2/2015 ed in particolare: LA PROCEDURA PER GLI SQUILIBRI MACROECONOMICI DEL 2015, pagina 60
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