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    Destra e sinistra insieme in Catalogna. Quale lezione per noi?

    9 years ago

    È una calma apparente quella che regna in Catalogna. Presto si voterà (il 24 maggio, per le elezioni comunali), ma non si tratterà affatto di un appuntamento cruciale. Al contrario, tutta l’attenzione è per ormai per il 27 settembre, un giorno che per Madrid segna soltanto il rinnovo dell’amministrazione regionale, ma che secondo Barcellona coinciderà invece con un vero e proprio referendum.

    L’accordo tra i due secessionisti catalani Artur Mas e Oriol Junqueras, tra il leader del centro-destra moderato e quello della sinistra radicale, è ormai cosa fatta. La volontà di salvare il progetto di una Catalogna indipendente ha avuto la meglio sugli egoismi di partito e sui contrasti ideologici. Il risultato è che quanti a settembre andranno alle urne sanno che non sceglieranno soltanto chi entrerà nella Generalitat, perché in caso di successo dello schieramento catalanista il voto sarà interpretato come un autentico referendum. Ciò che la Spagna post-franchista ha negato lo scorso anno, la Catalogna democratica intende prenderselo in questo modo tra pochi mesi.

    La mossa è astuta, perché se il potere centrale ha potuto impedire – Costituzione alla mano – la consultazione referendaria dello scorso anno, non può certo negare ai catalani di leggere politicamente un semplice rinnovo amministrativo come una scelta eminentemente istituzionale tra “status quo” e indipendenza.

    Dalla Catalogna giunge una chiara lezione a tutti gli indipendentisti. Se si vuole davvero affermare il principio che i confini sono mobili e devono essere cambiati rispettando la volontà degli elettori, esiste la maniera (pacifica, legale, democratica) perché ciò avvenga anche in presenza di governi ostili all’autodeterminazione dei popoli e pure quando vi sono ostacoli di natura legale. È sempre possibile trovare il modo di far manifestare a una popolazione la sua voglia di uscire da un ordinamento nazionale per dare vita a qualcosa di nuovo.

    Come si può tradurre tutto ciò da noi? Non è facile.

    I sondaggi, infatti, segnalano che vi sono aree (il Veneto, in particolare) in cui l’aspirazione all’indipendenza è prevalente, ma poi mancano altre condizioni essenziali. Non solo non ci sono molte forze chiaramente schierate a difesa del diritto di voto, ma anche quanti – in un modo o nell’altro – si richiamano a tali principi in realtà dispongono di un bacino elettorale inferiore a quello della maggioranza che vuole lasciarsi Roma alle spalle. Perfino in Veneto, insomma, la Lega e i movimenti indipendentisti sono ben lontani dall’incassare tutti i voti di quanti vorrebbero distaccarsi dall’Italia.

    Il motivo è che quanti sostengono le ragioni dell’indipendenza non sono necessariamente di destra, o xenofobi, o nostalgici di un passato in vario modo idealizzato, o schierati a difesa di questa o quella corporazione parassitaria. Di solito sono persone comuni, divise tra destra e sinistra (e poi cattoliche e no, progressiste e conservatrici, ecc.), che sarebbero felici di poter vivere un Veneto lontano da Roma, ma al tempo stesso non hanno alcuna intenzione di sposare posizioni populiste e demagogiche. Molti di loro pensano che la battaglia per un Veneto libero abbia poco a che fare con i rom o gli insulti ad altri gruppi etnici.

    Se il cinismo post-bossiano è un serio handicap per tutto il mondo variamente leghista e se quanti sposano le ragioni indipendentiste sono assai più aperti e liberali dei leader politici che hanno monopolizzato tali temi, è chiaro che c’è un urgente bisogno di più concorrenza e di voci nuove.

    C’è insomma la necessità che emerga un indipendentismo diverso, che ponga al centro il tema della libertà dei popoli e non si limiti a usarlo strumentalmente: confondendolo con mille altre cose, che possono essere utili a portare a casa voti e seggi, ma che sono dannose per il progetto indipendentista.