La musica come arte, oggi: nonostante l’avanguardia
10 years ago
In linea di massima, per la cultura contemporanea la musica non esiste. Anche intellettuali che non si perdono una Biennale e che seguono da vicino e con il massimo interesse quanto avviene nel campo della filosofia, del cinema, della psicologia o del diritto (pur non essendo filosofi, cineasti, psicologi o giuristi) assai raramente ascoltano qualcosa che non sia il “canone” della musica classica fino a Stravinskij, oppure più semplicemente pop, rock o qualcosa di simile. Non c’è quasi un pubblico per la musica contemporanea detta “colta”.
Eppure il nostro tempo ha musicisti che (in linea teorica e non solo) prolungano quella direttrice che da Monteverdi conduce a Bach, da Mozart porta a Wagner, da Debussy arriva fino a Stockhausen e agli altri protagonisti delle avanguardie novecentesche. Esistono festival, rassegne, cicli e case discografiche che danno spazio a queste forme espressive del nostro tempo, del tutto ignorate non solo dal grande pubblico che ama Madonna o magari Leonard Cohen, ma anche da quanti si emozionano all’ascolto degli ultimi quartetti di Beethoven.
Cosa è successo? Ancor più che nel campo delle arti figurative, che spesso si sono in fondo reinventate come provocazione di costume più o meno banali e conformiste (alla Maurizio Cattelan) o perfino quale denuncia politica (si veda il caso del cinese Ai Weiwei, solo per fare un esempio), nel campo musicale le avanguardie hanno dissolto ogni legame con il pubblico. Spesso si tende a pensare che questo sia conseguenza della complessità linguistica della musica contemporanea, ma c’è ben altro. Lungo le due direttrici dell’iper-razionalismo costruttivistico (il dopo-Webern) e dell’aleatorietà scettica (il dopo-Cage), la musica della grande tradizione ha negato l’opera. Ricordando Umberto Eco, che tali questioni aveva ben presenti, l’opera si è fatta talmente aperta, indefinita e impersonale da dissolversi.
La radice di tutto questo mi pare sia teologica. Nel mondo odierno Dio è scandaloso perché implica una gerarchia degli esseri che l’egualitarismo dominante non può accogliere. Con quale diritto – rievocando qui il dibattito tra John Rawls e Robert Nozick – quell’Essere dovrebbe vedersi attribuire dalla lotteria naturale tanti e tali privilegi rispetto alle povere creature mortali? È forse l’egualitarismo, ancora più che il vitalismo nietzschiano, ad avere dichiarato morto e per sempre il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe.
Nella stessa logica, per quale motivo talune opere dovrebbero essere artistiche e altre no? Il politicamente corretto del nostro tempo impone di mettere sullo stesso piano i Beatles, Chopin e i canti popolari moravi. L’arte è la società, l’arte sono le strutture, l’arte è il mondo che le ha prodotte, e ogni gerarchizzazione è inammissibile. Tutti sono artisti e alla fine nessuno lo è. L’avanguardia è stata compenetrata di questi umori e ha più volte negato – anche in musica come nelle altre forme di espressione – ogni continuità con il passato. Se Marcel Duchamp ha esposto un orinatoio, John Cage ha registrato i rumori casuali di un qualunque porto. L’egualitarismo non ammette l’artista come uomo fuori dal comune e di conseguenza nega l’opera stessa. Come mostra un celebre saggio di Martin Heidegger, l’artista fa l’opera, ma l’artista è reso tale dall’opera stessa. Tutto questo, però, dissolve il magma indifferenziato e senza criteri che si trova al cuore dell’esperimento a cui noi contemporanei stiamo prendendo parte.
Eppure non tutto si è mosso in questa direzione. Per nostra fortuna, il disastro ha una sua incoerenza. In fondo, gli stessi dadaisti alla fine sono finiti nei musei… forse per errore, ma tant’è. E così, nonostante le loro poetiche e spesso in contrasto con esse, i protagonisti dell’avanguardia hanno più volte realizzato opere, hanno elaborato mondi, hanno scolpito cattedrali musicali e suscitato sogni. Questo vale per Pierre Boulez (si ascolti ad il Rituel in Memoriam Maderna, ad esempio), per Karlhein Stockhausen (basti pensare alle raffinate invenzioni di Tierkreis, che recuperano le logiche della variazione) e, a maggior ragione, per Gyorgy Ligeti, che forse è stato il meno intellettualistico e il più poetico tra i protagonisti della musica di secondo Novecento. Anche il suo Poème symphonyque per metronomi è musica che – sulla base di una sola (non sconvolgente) intuizione – genera comunque un suo pathos. Senza considerate che quel brano sta alla sua produzione complessiva di questo artista come il Bolero sta al resto della musica di Maurice Ravel, che è grande non certo per quel pezzo pure famosissimo.
A dispetto di tutto, insomma, abbiamo avuto opere e quindi artisti. E in qualche anche poeti in musica di straordinaria sensibilità, di cui prima o poi verrà riconosciuta la vera grandezza, come nel caso di Claude Vivier.
Resta il fatto che questi suoni giungono ormai a noi da un universo popolato da macerie. Gli occidentali hanno creduto alle poetiche delle avanguardie e hanno smesso di pensare che l’ascolto esiga umiltà, attenzione, impegno, e che vi siano capolavori a cui ci si avvicina con rispetto. Di conseguenza la complessità dei nuovi linguaggi è stata equiparata a un caos soltanto sgradevole: meritevole di essere sbeffeggiato. Alla fine l’unica alternativa all’egualitarismo anti-artistico del politicamente corretto è diventata la riproposizione tradizionalista di vecchi linguaggi: una sorta di perenne neoclassicismo da civiltà morente. È questa la tesi di Roger Scruton, che ha ragione a difendere il senso profondamente umano della bellezza, ma non mi pare convincente quando ritiene che non ci possa essere un modo “nostro” e nuovo di fare opere, realizzare arte, inseguire sogni.
Le emozionanti opere di Vivier – ma anche di grandi musicisti come Gérard Grisey, Tristan Murail e altri ancora – ci dicono che dalla catacombe della musica contemporanea possono venire alla luce anche pagine formidabili. Non sarebbe la prima volta, se si considera che nella fioca luce del tramonto della polifonia rinascimentale il principe di Venosa ha scritto musiche di cui è stata riconosciuta la grandezza solo secoli dopo e grazie a una piccola cerchia di studiosi e amatori. Non è detto che questo declino della civiltà occidentale debba essere caratterizzato solo dal fracasso o dal silenzio.